Nomadi: la Provincia deve cercare nuovi campi

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Gianandrea Zagato

C’è un aggettivo che fotografa l’emergenza nomadi: insostenibile. Tredici lettere che danno corpo e sostanza a quelle ferite aperte che le baraccopoli sono per Milano. Squarci di illegalità «intollerabili per una società civile» che gli amministratori di Palazzo Marino sbattono in faccia ai sindaci dei Comuni della provincia. La loro colpa? «Non vedere il problema, lasciarlo da parte». Strategia politica di basso profilo che non va giù a Bruno Ferrante: «Anche i Comuni della Provincia devono far la loro parte. Quello dei nomadi è un problema difficile da governare, quindi scomodo. La strada è di prevenirlo per evitare che diventi cronico». Percorso che il prefetto delinea al vertice dedicato all’emergenza rom.
Appuntamento in quel di Palazzo Diotti dove non c’è bisogno di ripetere la solfa di sempre: «Milano non può essere la calamità di tutto», «bisogna costruire piccoli villaggi di accoglienza» e, infine, «il modello da seguire è quello milanese, con campi attrezzati, dotati di confort necessari». Tempo risparmiato perché tutti gli intervenuti - i sindaci di Rho, Pero, Bollate e Baranzate - conoscono lo stato dell’arte e quel villaggio di cui non si parla mai, costruito nella milanese Chiesa Rossa da cinque anni ospita 250 persone «nella più completa gestibilità» ricorda il prefetto. Anche la Provincia apprezza quel «modello» e sa che, ora, deve intervenire «localizzando nuove aree per i campi nomadi». Impegno reclamato senza troppi giri di parole che la giunta di Filippo Penati decide di onorare e l’assessore Francesca Corso fa sapere di poter garantire. Come? «Mettendo a disposizione aree per costruire piccoli villaggi di accoglienza per nomadi spalmate sui 190 Comuni del Milanese che, a metà giugno, chiamiamo a raccolta» dice la responsabile dei Diritti dei cittadini: «Non sappiamo però quanti sono gli ospiti, dobbiamo cioè fare prima un censimento dei nomadi». Conta già messa sul tavolo prefettizio dai ghisa meneghini, «sono almeno tremila»: esercito, osserva il vicesindaco Riccardo De Corato, che Milano «non può più sopportare». «La nostra città non è più in grado di spendere una lira in più per i campi nomadi» ovvero ristrutturato il campo di via Triboniano - «eseguiti gli allacciamenti a fognature e acquedotto in via Barzaghi - «non siamo più disposti a fare altro».
Dichiarazione seguita dalla richiesta di due interventi «ormai non più rinviabili, il campo di Capo Rizzuto e di Triboniano». Favelas sorte a ridosso del cimitero Maggiore dove più che operazioni di sgombero - «non è realistico pensare di risolvere il problema con il solo intervento delle forze dell’ordine» sostiene il prefetto Ferrante - si scelgono «interventi mirati»: «Non sono d’accordo nello sgomberare campi con dentro trecento e passa persone: andrebbero a affollare altri campi della città» spiega il questore Paolo Scarpis. Meglio, quindi, una strategia di «espulsione mirata verso persone pericolose per la sicurezza».

Strategia «d’alleggerimento e di pressione» accompagnata «dall’intensificazione del controlllo del campo di via Triboniano», dove il Comune richiede alle forze dell’ordine una mano per iniziare i lavori di ristrutturazione. Che, per la cronaca, si svolgono in quattro fasi: undici mesi di tempo e un milione di euro per dare un tetto a 312 famiglie nomadi che, naturalmente, offrano il rispetto delle regole.

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