Politica

Non finisce qui

Ieri mattina, più lesto di una lepre o forse di un coniglio, l’Ordine dei giornalisti della Lombardia mi ha notificato un avviso disciplinare per avere rivelato la faccenda di Sircana e del tentativo di ricatto ai suoi danni. Motivazione: ho coinvolto il portavoce del governo in una storia, cito testualmente, «da marciapiede», dimenticandomi che l’onorevole dell’Ulivo era una vittima e non un protagonista penale del fatto. L’avviso mi ha fatto strabuzzare gli occhi. Mica per la paura: no, li ho sbarrati per lo stupore. Ma come, tutti i giornali hanno raccontato, con dovizia di particolari, fatti e pettegolezzi, mettendo nomi e cognomi di decine di vittime finite nel mirino di Corona e la sua banda, e il tribunalino dei giornalisti nemmeno finge di occuparsene, ma dice chiaro e tondo, senza neppure un briciolo di rossore, che mi mette sotto accusa per aver fatto il nome di Sircana? Via, colleghi, almeno difendete le apparenze. Dite che vi occupate della privacy di tutti, non solo dei potenti.
E la Federazione nazionale della stampa? L’altro ieri un giornale di diretta emanazione del partito di governo, Europa, mi intimidisce, mi invita a star attento, anche ai miei figli, mi fa insomma capire che da oggi sono sotto tiro, che passeranno al setaccio la mia vita per incastrarmi, e che fanno i sepolcri imbiancati del sindacato giornalisti, gli indomiti eroi della libertà di stampa? Tacciono. Anzi, no: spalleggiano chi mi minaccia. Complimenti.
Ma complimenti raddoppiati a quei giornali e a quei giornalisti che in questi giorni hanno raccontato ai propri lettori che le fotografie non ci sono, che è tutta un’invenzione, una campagna dell’odiato Giornale contro il governo Prodi, una montatura. Il Manifesto è giunto a scrivere di «falso scoop». L’Unità ha descritto i balbettii di un paparazzo come la prova regina dell’inesistenza del dossier. Alcuni, dopo aver taciuto il nome di Sircana pur disponendo degli stessi verbali in nostro possesso, hanno tentato di depistare i loro lettori, nonostante avessero nel cassetto l’intero servizio fotografico messo insieme dagli amici di Fabrizio Corona sul portavoce del governo.
Ho detto in tv che le fotografie esistono e non mentivo. Sul mio tavolo, mentre sto scrivendo, sono allineate cinque istantanee. Le immagini sono tali e quali a quelle che Gian Marco Chiocci e Gianluigi Nuzzi vi descrissero mercoledì scorso. Sono le stesse di cui parla Max Scarfone, il fotografo romano, nelle concitate telefonate notturne con Corona. Il bavaglio che mi ha imposto ieri sera il garante della privacy pur di salvare l’immagine del portaparola di Palazzo Chigi mi vieta di pubblicarle, pena una condanna fino a due anni di carcere. Per difendere un suo uomo, Prodi è giunto a far imporre al garante misure che stanno facendo ridere il mondo. Con un editto di stile sovietico, fabbricato su misura per Il Giornale, ha imposto la censura. Ma le foto sono qui, sulla mia scrivania, e non possono essere censurate, né da Prodi né dai suoi apparati.
Badate bene: io non ho nulla contro Silvio Sircana. Non lo conosco. Non mi può importare di meno di come trascorra le sue serate. Né dei suoi tour ai bordi del marciapiede. Non faccio il moralista. I costumi e le abitudini sessuali di chiunque non mi interessano. Ma come giornalista mi riguarda, e da vicino, ciò che accade dentro il Palazzo. E se si preparava un ricatto ai danni del portavoce del governo, non mi lascio imbavagliare: lo racconto.
Qualche simpatico collega per aver fatto il nome di Sircana mi ha dato del mascalzone. Il mascalzone vero, però, non è chi come me ha pubblicato tutti i nomi dell’inchiesta - senza alcuna pruderie - ma chi ha buttato nel tritacarne tutti i nomi tranne uno: quello dell’amico potente.


Ma non finisce qui.

Commenti