Non lasciamo decomporre il nostro bene più prezioso

Eleonora BarbieriAll'inizio di un anno che nasce già immerso nella paura, nel male, nelle tragedie e nell'orrore che minacciano ogni giorno la nostra civiltà e le sue abitudini, la felicità è un miraggio a cui aggrapparsi. Appare un trascendentale, come avrebbe detto Kant, ben più che un diritto, secondo una tradizione che l'Occidente ha sviluppato negli ultimi secoli. Nella felicità per diritto ci siamo crogiolati per un po', un'illusione bella da coltivare, sempre che il nostro orto fosse una serra, impermeabile al mondo esterno. Poi l'infelicità ci ha risvegliato da questa versione un po' rammollita di felicità: una mezza-felicità, che ci ha reso quasi flosci, abitudinari nella convinzione che il sans souci fosse il modo di vivere, e il resto passasse pure via, domani è un altro giorno. Quando domani è arrivato, è stato adesso, dei terroristi folli che sputavano in faccia alla felicità pur di rovinare quella degli altri, in mezzo alle strade e ai locali di Parigi, ecco, allora qualcosa ci ha smosso. La felicità minacciata, molto più potente della sonniferosa felicità di diritto. L'infelicità, motore dell'agire e della nostra ricerca della felicità, alla fine, «architetto della diversità, fattore intelligibile delle nostre azioni», quella a cui dobbiamo tutto, insomma, dice Emil Cioran in Sommario di decomposizione (Adelphi).

L'infelicità che non si misura in Pil, in «Felicità interna lorda», in indici e statistiche, in grafici, in percentuali di sviluppo, in codicilli e articoli di legge inapplicati. La felicità minacciata ci ricorda che essa stessa è una lotta, che polemos è padre, re eracliteo di tutte le cose, e che la strada verso la felicità è lastricata di molte infelicità, non tutte da scrollarsi di dosso.

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