Non leggiamo libri, leggiamo noi stessi

Non leggiamo libri, leggiamo noi stessi

Per concessione dell’editore Mondadori, pubblichiamo una delle riflessioni di Cocteau contenute nel volume La difficoltà di essere (© 1983 Éditions du Rocher, Monaco) dal titolo «Della lettura».

Non so né leggere né scrivere. E quando il foglio del censimento me lo chiede avrei voglia di rispondere davvero di no.
Chi sa scrivere? Vuol dire combattere con l’inchiostro per cercare di farsi capire.
O si cura troppo il proprio lavoro oppure non lo si cura abbastanza. Raramente si trova la via di mezzo che zoppichi con grazia. Leggere è un’altra cosa. Io leggo. Credo di leggere. Ogni volta che rileggo, mi accorgo che non ho letto. È il guaio di una lettera. Ci troviamo quello che cerchiamo. Ci accontentiamo. La mettiamo via. Se la ritroviamo, nel rileggerla ne leggiamo un’altra che non avevamo letto.
I libri ci giocano lo stesso scherzo. Se non corrispondono al nostro umore attuale non li troviamo buoni. Se ci disturbano ne facciamo la critica e questa critica vi si sovrappone, ci impedisce di leggerli lealmente.
Quello che il lettore vuole, è leggersi. E leggendo quello che approva, pensa che potrebbe averlo scritto lui. Può anche avercela con il libro per aver preso il suo posto, per aver detto quello che lui non ha saputo dire, e che, a suo parere, saprebbe dire meglio lui.
Più un libro è importante per noi, peggio lo leggiamo. La nostra essenza vi si insinua e lo pensa a nostro uso. È per questo che se voglio leggere e convincermi che so leggere, leggo dei libri in cui la mia essenza non penetri. Nelle case di cura in cui ho passato dei lunghi periodi, leggevo quello che mi portava l’infermiere o quello che mi capitava per caso. Erano libri di Paul Féval, di Maurice Leblanc, di Xavier Leroux, ed innumerevoli libri d’avventura o gialli che facevano di me un lettore attento e modesto. Rocambole, Lecoq, Il delitto d’Orcival, Fantómas, Chér-Bibi, pur dicendomi: «Tu sai leggere», parlavano troppo la mia lingua perché io non ne facessi, a mia insaputa, una preda, perché il mio spirito non li deformasse a misura del suo corpo. Questo è così vero che, ad esempio, sentirete molte volte questa frase detta da un tubercolotico: parlando del libro di Thomas Mann La montagna incantata: «È un libro che non si può capire, se non si è stati tubercolotici».
Ora Thomas Mann l’ha scritto senza esserlo - e proprio per far capire la tubercolosi a quelli che non la conoscono.
Siamo tutti malati; e non sappiamo leggere altro che i libri che trattano della nostra malattia. È il successo dei libri che trattano dell’amore, poiché ognuno crede di essere il solo a provarlo. Pensa: «Questo libro è indirizzato a me. Che posson capirne gli altri?». «Come è bello questo libro» dice alla persona che amano, da cui si credono amati e a cui si affrettano a farlo leggere. Ma quella persona lo dice perché ama un altro.
C’è da chiedersi se il ruolo dei libri, che parlano tutti per convincere, non sia quello di ascoltare e di aderire all’opinione degli altri. In Balzac il lettore trova il suo pane: «È mio zio» si dice «è mia zia, è mio nonno, è la signora x..., è la città dove sono nato». Ma di Dostoevskij, che cosa si dice il lettore? «È la mia febbre e la mia violenza, che neanche sospetta chi mi sta intorno».


E il lettore crede di leggere. Il vetro senza metallo simula per lui uno specchio fedele. Riconosce la scena che si svolge dietro. Come somiglia a quello che lui pensa! Come ne riflette l’immagine! Come collaborano lui e lei. Come riflettono bene.

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