Non è proprio il caso di piangere troppo sul petrolio versato

Caro Granzotto, secondo me se ne è lasciata scappare una! Mi riferisco alla «sincera e democratica» chiazza di petrolio che sta assediando il Golfo del Messico. Non risparmia nessuno: «sette sorelle», Obama, i governatori degli Stati coinvolti, le Compagnie assicurative... Però, ragioniamo! La marea nera è costituita da idrocarburi allo stato nativo, dunque del tutto naturali, come l’acqua, l’aria, il sole e compagnia bella. Dunque stiamo parlando di materia completamente biodegradabile, che, in un lasso di tempo ridotto, verrà completamente metabolizzata da madre natura. Perché tutto ’sto can can? Non mi fraintenda! Sono sinceramente dispiaciuto per i volatili che non sopravviveranno, un po’ meno per i pescatori che potranno riprendere l’attività solo fra qualche mese, ancora meno per i turisti che frequentano la zona, che sapranno sicuramente trovare destinazioni migliori. Non riesco a catalogare altre figure la cui vita sarà compromessa dal lago nero. Considerandola uno dei pochi giornalisti dissacratori e anticonformisti viventi (non si adombri, sa bene che il parlarne porta fortuna), conto sulla sua solidarietà.
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Quella dell’ultima marea nera - subito presentata in veste di catastrofe epocale, disastro immane e planetario, indicibile calamità ecologica, ferita profonda e letale inferta alla buona e cara Madre Terra - me la lasciai scappare volontariamente, caro Martone. Siccome con l’età mi faccio sempre più buono, non volevo in alcun modo compromettere, nemmeno col mio piccolo, l’atteso collettivo frisson per le apocalissi o comunque per gli avvenimenti o i fenomeni che possano a priori esser definiti apocalittici. Non mi andava, insomma, vestire i panni del perfido zio che facendolo piangere rivela al nipotino che Babbo Natale non esiste. E sì che sarebbe stato facile: per ridurre infatti a faccenda scocciantissima ma non irreparabile l’accidentale fuoriuscita di petrolio dalla Deepwater Horizon sarebbe bastato ricordare gli esiti dei precedenti «disastri ecologici». Massime, quello provocato nell’89 dalla petroliera Exxon Valdez nel Golfo dell’Alaska, un «cult» anche perché nell’occasione fece la sua comparsa quella che divenne l’icona del «disastro ecologico». Il gabbiano impiastricciato di morchia (puntualmente ricomparso in concomitanza con la marea nera nel Golfo del Messico).
Bene, salvo qualche altro gabbiano un po’ tonto e molti pesci testardi che invece di allontanarsene con un colpo di pinna si fecero avvolgere dal petrolio fuoriuscito dalla Exxon Valdez, di quell’«irrimediabile disastro ecologico» non è restata traccia. Nel senso che al largo dell’Alaska tutto è tornato come prima. Tutto. Perché come dice bene, caro Martone, il petrolio è un elemento naturale uso perfino a trasudare dal fondo marino (lo utilizzarono per la prima volta i bizantini, chiamandolo «fuoco greco» e adibendolo a materia incendiaria per le loro catapulte). Ragion per cui piano piano l’ecosistema ha potuto digerire la chiazza nera e il mare è tornato pulito e pieno di vita. Unico vero fastidio, per l’uomo più che per fauna e flora, la patina catramosa che si depositò sui roccioni della riva e che fu tolta con duro e costosissimo lavoro. Restano solo dubbi sulla eventuale moria di certe anatre, le morette arlecchine, che prima del fattaccio della Exxon Valdez erano (qualcuno deve averle contate una per una) 14 mila e 500. C’è chi sostiene siano morte tutte e chi, invece, è dell’opinione che non essendo fesse come il gabbiano impiastricciato abbiano subito cambiato aria, scegliendosi un nuovo habitat.

Una cosa è sicura: sulla moretta arlecchina non piange più neanche il più sensibile degli animalisti, segno che i simpatici pennuti l’hanno sfangata, come d’altronde è normale che fosse con buona pace dei catastrofisti in servizio permanente effettivo.

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