Controcultura

Non si può togliere il cristianesimo da Graham Greene (e da molti altri)

Sembra che la conoscenza del Vangelo sia un optional per i critici: invece è la premessa indispensabile per comprendere molta letteratura

Non si può togliere il cristianesimo da Graham Greene (e da molti altri)

Ho letto solo quest'estate. Il console onorario di Graham Greene nella traduzione di A. Carrera per l'editore Sellerio (che sta ripubblicandolo tutto).

Il romanzo presenta le stesse caratteristiche degli altri del grande scrittore inglese: una conoscenza profonda e disincantata dell'uomo così com'è (ossia al netto delle sue persuasioni e del modo in cui si racconta), una capacità invidiabile di tessere trame senza mai dare l'impressione di operare forzature, una certa umiltà che lo porta a imparare dagli altri scrittori senza curarsi di competere con loro, la fortuna di non essere quasi mai considerato un modello (i modelli sono sempre stati altri, da Hemingway a Borges).

Ma Greene, come Cormac McCarthy, ha un'altra caratteristica evidente, che ricorre pressoché in tutte le sue opere, da Il potere e la gloria a Il fattore umano e perfino ne Il nostro agente all'Havana: una propensione molto forte alla teologia, frutto meno di studi specifici che del suo sincero, radicato credo cristiano cattolico. È difficile comprendere la sua opera senza tenere conto di questa intramatura, così come sarebbe impossibile farlo leggendo i racconti di Flannery O'Connor così come la Divina Commedia.

Prefazione e postfazione del libro sono affidate a due autori eccellenti come Alessandro Baricco (ho letto Il console onorario su suo consiglio) e Domenico Scarpa. Ma in tutti e due i testi, pur belli, fa difetto una conoscenza del cristianesimo sufficiente per accedere ad alcuni livelli importanti del testo. Posso capire che un libro bello è bello e basta (e che uno brutto è brutto e basta), ma la lettura è anche un atto di conoscenza, e se in un romanzo fa la sua comparsa un dio (cito Borges) conviene possedere il sismografo adatto a rilevarlo.

Ne Il console onorario il repertorio biblico - dal Peccato Originale al sacrificio di Cristo fino ai temi del Sacramento, della Grazia e del Perdono - compare in primo piano, a cominciare dallo stesso motivo della storia: una banda di terroristi rivoluzionari organizza un rapimento allo scopo di liberare alcuni prigionieri, ma rapisce l'uomo sbagliato.

Eppure, troppo spesso questo aspetto viene presentato dai critici tra virgolette, come se fosse sempre e comunque inessenziale alla comprensione dell'autore. Già Gadda, è vero, deprezzò il cristianesimo del Manzoni, ma (senza discutere qui le tesi dell'Ingegnere) certi argomenti vanno calibrati di autore in autore, senza stabilire regole generali.

È questo il problema che vorrei segnalare. Uno storico dell'Arte non potrebbe nemmeno pensare di fare il suo lavoro senza una buona conoscenza della Bibbia, dei Vangeli e della dottrina cristiana così come, dagli Apostoli, si è sviluppata perlomeno per millecinquecento anni, fino al Concilio di Trento. La ragione, ovvia, è che per diversi secoli la maggior parte delle opere pittoriche dell'Occidente ha riguardato i contenuti della fede cristiana.

Per chi si occupa di arte è innegabile come il pensiero giudaico e cristiano sia un fattore fondamentale della nostra civiltà, così come quello greco-latino. In Letteratura (ma anche nel cinema) sembra però che le cose non stiano così. Non ne faccio una questione di fede (altri l'hanno fatto, come Igor Stravinskij a proposito della musica sacra, che per lui era tutta la musica) ma soltanto di conoscenza. Come per parlare di Giotto, Michelangelo, Rembrandt è necessario conoscere il cristianesimo in tutte le sue versioni, così a me pare ugualmente necessario per poter parlare non solo di Dante o del Tasso o di Dostoevskij ma di molti autori moderni e «laici», non fosse altro che per la centralità dei simboli cristiani nella simbologia occidentale, da Ibsen a Rimbaud fino a Pasolini. E a Graham Greene.

Sembra insomma che un intellettuale di questi giorni ritenga la conoscenza di queste cose ininfluente al fine di sviluppare un discorso completo sulla Letteratura. Si ritiene essenziale conoscere Omero, Platone ed Eschilo ma non il Genesi, i Profeti o i Salmi. Il Vangelo è sconosciuto a molti, che spesso però si sentono autorizzati a parlarne. Ah, questi «cattolici», ma cosa vogliono?

Io non rivendico più spazio per il cristianesimo e per un'interpretazione cristiana della Letteratura. Penso però che l'attuale disistima sia quanto di meno laico si possa immaginare. Una cultura è laica quando non discrimina, quando ha la semplicità e la lucidità di considerare ogni fattore, ogni aspetto, ogni posizione necessaria alla comprensione, senza stabilire previ diritti di cittadinanza. Mi limito a osservare che questo in Italia non accade se non al chiuso di una cultura «cattolica» e dei suoi strumenti di diffusione, che spesso però si fermano su posizioni rivendicative o «aperturiste» a oltranza. Qui però non si rivendica niente, né si apre a niente.

Si esprime soltanto, contro il pericolo dell'ignoranza, la necessità di conoscere ciò di cui si parla, specialmente quando - come nel caso di Graham Greene - parlarne è necessario.

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