Non sono i mondiali di Mandela, sono i mondiali del pallone

Il posto del simbolo della fine dell’apartheid non è in uno stadio. La Fifa non è una piccola Onu: il calcio è più modesto e leggero

Al netto della retorica, è il giorno del pallone. Si comincia, si gioca. Perché questi non sono i Mondiali di Mandela, della fine dell’apartheid, delle scuse collettive del pianeta a un Paese. La cerimonia di inaugurazione sarà un tributo dovuto e infinito. Scattiamo le foto al simbolo del Sudafrica: guardiamolo e poi rimettiamolo al suo posto. Che non è in uno stadio. Lì c’è un pallone che rotola, ventidue giocatori che gli corrono dietro, le tv di tutto il globo che trasmettono, il mondo che guarda. Robben Island, i suoi detenuti, la divisa numero 46664 sono la scusa per illudersi che il calcio sia qualcosa di più di quello che è nella realtà. Il fischio di inizio di oggi rimette tutto in ordine. Comincia il mese che ogni quattro anni riconcilia il calcio con se stesso. Non importa dove, importa che accada. È la magia di una manifestazione che trascina folle come le Olimpiadi e quindi come niente altro al mondo. Non c’è altro evento sportivo - Giochi esclusi - che regga il confronto, non esiste appuntamento che possa pensare di paragonarsi. Allora il Sudafrica non è la notizia: è il contorno. È merce buona per far credere a chi detesta il pallone che dietro una partita ci sia la sconfitta del razzismo, la rinascita di un Paese che era la vergogna del pianeta. No. Il calcio non è diplomazia, non è l’alternativa più popolare dei governi, la Fifa non è una piccola Onu. È qualcosa di molto più modesto e per questo più leggero.
Hanno caricato questi Mondiali di un’aspettativa che il pallone non può soddisfare senza snaturare se stesso: sarà sempre il braciere dove ardono i nostri istinti, il nostro tifo, la nostra passione, le nostre follie. Non si può chiedere al calcio di rendersi sobriamente intellettuale in onore di un appuntamento che è per sua natura la massima espressione del circo pallonaro. Uruguay, Italia, Francia, Corea, Brasile, Sudafrica: al pallone non interessa dove, ma come. E noi, cerchiamo gol, emozioni, esultanze: è già triste sapere che emergeranno dal nulla milioni di tifosi di circostanza, patrioti improvvisati che per quattro anni sono rimasti indifferenti o addirittura infastiditi dal calcio e che adesso ritornano bardati dalle loro magliette, delle loro sciarpe, dei loro cappellini. A tutto questo non gli si può aggiungere la retorica del Sudafrica che si riprende il mondo. È sbagliato per Mandela, per la sua storia, per le sue sofferenze. Il Sudafrica s’è ripreso se stesso il giorno in cui ha ottenuto il privilegio di ospitare la Coppa del mondo. Sono passati anni, abbiamo dimenticato anche perché ha vinto: per un’imposizione neanche troppo nascosta della Fifa che s’era impegnata a garantire all’Africa un Mondiale entro il 2010. È stato bello quel giorno a Zurigo: lo sapevamo, ma ci siamo emozionati lo stesso. Oggi non ci si può più mettere lì a controllare se il Sudafrica sia pronto o meno: bisogna darlo per scontato. Non farlo significa essere razzisti, significa mettere in dubbio, significa non fidarsi.
Abbiamo visto, letto, raccontato: abbiamo imparato a conoscere questo posto che un giorno era dimenticato e che domani sarà celebre grazie al pallone. Adesso siamo lì, ma potremmo essere altrove: siamo nella patria globale del calcio. Siamo con Messi, Cristiano Ronaldo, Rooney, Lampard, Torres. Siamo con i neozelandesi che non giocano neanche con le squadre di club e con i nordcoreani che vanno in campo con le magliette fatte a Pompei. Siamo con l’Italia: Lippi e noi, la squadra e noi. Le polemiche, la formazione che non va mai bene, gli assenti, il tifo contro, le serate tra amici, molti dei quali appartengono a quella categoria degli indifferenti o addirittura infastiditi dal calcio che poi al Mondiale si scoprono italiani e pure tifosi. È un rito collettivo, questo. Non la banalizzazione della geopolitica. L’enfasi sui Bafana Bafana è la sconfitta della Coppa del mondo e paradossalmente anche dei Sudafrica. Mandela non è rimasto per 27 anni in carcere per diventare un simbolo del pallone. Qui c’è la nostra arroganza snob, la presunzione di dare un volto a un evento, un’immagine seria a un appuntamento che serio non è. Si scende in campo, c’è l’inno nazionale, si gioca, si segna. Ci sono supplementari e rigori. Spesso c’è uno spettacolo sportivo che non è all’altezza di chi lo mette in scena.

Eppure al Mondiale nulla ha importanza, tranne il fatto stesso che si giochi per diventare i più forti del mondo. Ogni quattro anni. Un pallone che rotola, una rete che si gonfia, un Paese che si sente il migliore. È questo. Spesso non vince neanche il migliore.

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