Vorrei presentare a Walter Veltroni un uomo che vive nella parte più nascosta, più dimenticata del Veneto; una terra che odora di palude e di gabbiani; una terra che litiga e fa pace ogni giorno, da secoli, con gli umori di un fiume simile ad una cattedrale distesa. La terra in questione si chiama Delta del Po e il suo guardiano più appassionato, più instancabile, che ha occhi da sciamano e mani tempestate di ferite e fatica, si chiama Giuseppe Forte.
Giuseppe Forte, ad Ariano Polesine, è proprietario di un ex fortino della Serenissima, la cui parte esterna è stata adibita ad un museo, ripartito in tre lunghissimi piani: con una cura maniacale, una meticolosità filologica da lasciare senza fiato, sono raccolti centinaia di oggetti, attrezzi, macchinari, pezzi di arredamento, foto originali, brandelli di vesti, relitti di carri e barche, che ricostruiscono la storia della civiltà contadina fin dai suoi primi vagiti.
Alla fine della visita, gli ho chiesto: «Ma chi si prende cura di tutto questo? Chi la aiuta?». «Nessuno - mi ha risposto, senza tradire alcuna fierezza, né orgoglio - ho fatto e faccio tutto da solo». Sono stato allora invaso da un conato di rabbia, pensando alle centinaia di musei romani «assistiti», (primo fra tutti, quello del Cinema), che, sovente, di storicamente interessante hanno soltanto le gambe della ragazza che strappa i biglietti all’entrata.
«Ma perché lo fa?» l’ho interrogato prima di andarmene.
«Per ricordare a chi verrà dopo di noi il nostro nome» mi ha detto in forma di saluto.
È proprio questo il problema, caro Veltroni; non basta costruire liste elettorali, gridando ai quattro venti: «Io ho scelto gli uomini del fare», quando, in verità, dopo il verbo non c’è, né si conosce il complemento oggetto; non si può fare breccia nel cuore e nella testa dei veneti, usando una strategia simile a quella che lei ha biecamente usato per dare una risposta al problema dell’immigrazione o alla solitudine tragica ed eroica ad un tempo degli operai nelle fabbriche. Perché, in verità, questo è il suo fin troppo svelato progetto: sanare la irrimediabile frattura, la secolare incomunicabilità tra Nord-Est e Sinistra Comunista, candidando imprenditori e finanzieri, nel goffo tentativo di domandare scusa se negli anni passati il partito comunista, di cui lei faceva parte, considerava il Nord una sorta di cloaca, in cui galleggiavano padroni corrotti, schiavisti senza pietà, analfabeti arricchiti. Questo è ciò che lei ha fatto e che intende fare: vuole usare la Confindustria veneta per rompere il muro del sospetto e dell’impopolarità, così come, da sindaco della Capitale, ha usato un plotone di poliziotti, (trattati dal governo Prodi come extracomunitari in casa propria), che a bordo di ruspe e cingolati hanno abbattuto un cimitero di baracche e disperati, per rendere giustizia ad una donna violata e massacrata da un manipolo di sporchi assassini; ha stabilito la candidatura di un imprenditore «rappresentativo» per controbilanciare quella del lavoratore scampato alla infame sciagura della Thyssen; e, in entrambi i casi, l’obiettivo finale era ed è quello di mondare il senso di colpa dei governi progressisti, che tanto agli imprenditori che agli operai hanno saputo soltanto rifilare «bellissime» batoste.
Ed invece per conquistare una terra bisogna conoscerla, rispettarla, amarla. Uno dei più grandi statisti contemporanei, Ariel Sharon, ci ha insegnato che persino per piegare il più inviso dei nemici si deve, almeno per un attimo, fare finta di amarlo. Lei non può amarci né fingere di volerci bene perché non conosce, né le interessa sapere il nostro nome. Allora glielo spiego io: il nostro nome è quello di Carlo Goldoni, che, per le celebrazioni del suo tricentenario dalla nascita, non ha avuto un centesimo dal ministero che lei e i suoi avete occupato e continuate a gestire, dal dopoguerra in poi senza interruzioni, (mentre, da quello che mi risulta, per fare un film tratto da un suo libro, qualche euro dei contribuenti è stato speso...). Il nostro nome è quello di Andrea Colasio, l’unico uomo del Centro Sinistra, che, da veneto, per la cultura del Veneto si è battuto nelle passate legislature; come mai è finito nono nella sua lista elettorale?
Il nostro nome è quello di Renato Simoni, di Ferdinando Palmieri, di Giacinto Gallina, i cui nomi, alle sue orecchie, hanno la stessa familiarità di quello di un insetto africano sussurrato al mio cospetto; il nostro nome è quello di artigiani che non sono miliardari, di commercianti che non si chiamano Benetton. Il nostro nome sono i giovani che magari non lavorano in un call center, ma si fanno le ossa e la braccia nell’azienda di famiglia, rinunciando spesso ai loro sogni, ad una strada ed una vocazione diverse, che però, se perseguite, metterebbero sulla strada i dipendenti e le loro famiglie; che, se perseguite, metterebbero la parola «fine» al lavoro, al nome di una famiglia. Capisce, Veltroni? Il nostro nome è il nostro lavoro; il nostro lavoro è la nostra identità.
Nonostante la montatura dei suoi occhiali da giovane Gramsci sia assai mutata, fino ad assomigliare a quella di Della Valle, le lenti sono sempre le stesse; troppo opache per poter guardare e meritare gli occhi di chi ha un nome. Troppo spesse e scure per ricevere luce dalle mani di uno come Giuseppe Forte.
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