È la terza volta in otto mesi che la Corea del Nord provoca Seul: in marzo ha silurato la fregata Cheonan, provocando la morte di 46 marinai; in agosto le sue batterie hanno sparato 110 colpi in direzione sud, senza peraltro fare danni; ieri, hanno reagito alle annuali manovre sudcoreane nella zona rovesciando un inferno di fuoco su Yeonpyeong, un'isola situata nei pressi del contestato confine marittimo tra i due Stati, uccidendo due marines, ferendone quindici e incendiando decine di case. Si tratta di una vera e propria escalation, che ogni volta mette a dura prova il governo di Seul, che non vuole lasciarsi trascinare in un conflitto, ma non può neppure mostrare eccessiva arrendevolezza. Anche stavolta il Sud, pur mettendo in allerta le sue forze armate, ha evitato di reagire a caldo, forse in attesa di capire che cosa Pyongyang si propone con questo ritorno di aggressività.
La Corea del Nord sta attraversando un momento molto difficile. Il leader Kim Jong-il, in pessima salute, sta cercando di assicurare la successione al suo terzogenito, il ventottenne Kim Jong-un, recentemente promosso generale a quattro stelle e ormai bene in vista in tutte le cerimonie ufficiali. Ma il passaggio di poteri sembra suscitare resistenze nell'esercito e nella nomenklatura, e non è certo facilitato dalla situazione interna. Secondo un rapporto della Fao, il Paese è di nuovo alla fame, con due milioni di bambini talmente denutriti da rischiare conseguenze permanenti. Intanto, il numero di persone che sfidano mille pericoli pur di fuggire da questo inferno è raddoppiato negli ultimi mesi, e ci sono perfino voci, non confermate, di locali "rivolte del pane". Pyongyang ha, perciò, un disperato bisogno di aiuti, ma le sanzioni imposte dall'Onu per indurla a rinunciare al suo arsenale atomico hanno ridotto anche l'assistenza umanitaria.
In passato, la Corea del Nord - ultimo bastione mondiale dello stalinismo - ha fatto spesso e con successo la voce grossa per uscire dall'angolo e strappare concessioni alla comunità internazionale. Secondo molti analisti, anche i suoi due test nucleari, la espulsione degli ispettori dell'Aiea e il ripetuto lancio di missili sul Pacifico avrebbero essenzialmente l'obbiettivo di "ricattare" gli Stati Uniti, che finora hanno rifiutato ogni trattativa bilaterale e insistito per il rilancio dei negoziati a sei con Russia, Cina, Giappone e Corea del Sud. In questa tattica intimidatoria sembra rientrare anche il recentissimo quanto inconsueto invito a un noto esperto americano, il professor Siegfried Hackman, a visitare un nuovo impianto per l'arricchimento dell'uranio, finora mantenuto segreto, dove duemila centrifughe sono già all'opera in vista della costruzione di nuovi ordigni. È perciò ipotizzabile che il bombardamento di Yeonpyeong preluda all'ennesima manovra di Kim Jong-il per riaprire una trattativa da posizioni di maggior forza.
Per il momento, non solo gli Usa, ma anche Giappone, Russia e la stessa Cina (con molta cautela) hanno condannato l'aggressione, ma il loro interesse primario è da un lato evitare uno scontro Nord-Sud, dall'altro impedire che Pyongyang, che oggi dovrebbe avere sei-otto ordigni a basso potenziale, diventi una vera potenza nucleare. Se ci fosse la possibilità di riprendere il "tavolo a sei" non si tirerebbero indietro. Ma, prima, dovremo assistere all'ennesimo esercizio di brinkmanship, o politica del rischio calcolato.
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