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La nuova sfida iraniana all’Occidente

E ora improvvisamente tutto appare chiaro. Osservi Hamas in Palestina, gli Hezbollah in Libano, segui le mosse della Siria e quelle delle milizie sciite in Irak. Aggiungi la questione del nucleare e trovi la risposta a tutto. Dietro a ogni crisi c’è l’Iran. Ma non è il solito Iran, che di tanto in tanto semina burrasca ma poi rientra nei ranghi, e sbaglia chi considera il suo presidente Mahmoud Ahmadinejad alla stregua di un folle, da non prendere troppo sul serio. Questa volta la situazione è diversa, perché diversi sono gli obiettivi degli ayatollah.
L’Occidente diffida da tempo di Teheran e con qualche buona ragione. Ma dalla fine degli anni Ottanta, la politica estera iraniana è stata caratterizzata da un grande pragmatismo. A dispetto della retorica pubblica, il regime per molto tempo ha evitato accuratamente attriti con gli Usa. E sebbene Washington e Teheran non abbiano più relazioni diplomatiche dal 1979, i canali informali sono rimasti aperti, soprattutto nei momenti cruciali. L’Iran non ha tentato di ostacolare l’America e i suoi alleati durante la prima guerra del Golfo. Ha finanziato gruppi terroristici locali in Palestina e in Libano - come Hamas, la Jihad islamica e gli Hezbollah - ma non quelli globali che fanno capo ad Al Qaida. Quando, dopo l’11 settembre, i marines hanno invaso l’Afghanistan gli iraniani sono rimasti tranquilli; quasi compiaciuti nell’assistere alla rimozione del regime talebano, da loro mai amato. Poi hanno aiutato Washington a tenere sotto controllo alcune delle tribù afghane al confine tra i due Paesi. Nel 2003 in vista della guerra in Irak, Teheran ha addirittura siglato un accordo segreto con l’allora segretario di Stato Colin Powell di mutua non ingerenza: l’America non avrebbe attaccato l’Iran, che da parte sua avrebbe tenuto a freno le milizie sciite nel sud dell’Irak. Quell’intesa, nel giugno del 2003, stava per portare all’avvio di negoziati ufficiali, previsti a Ginevra, ma il ministro della Difesa Donald Rumsfeld convinse Bush a non farne nulla. Da allora i rapporti tra i due Paesi sono peggiorati, ma fino a quando alla presidenza è rimasto il moderato Khatami, la linea diplomatica di Teheran non è cambiata.
Con Ahmadinejad l’Iran si è trasformato. E non solo per le sue deliranti minacce contro Israele. La svolta riguarda soprattutto gli obiettivi politici. Addio prudenza, addio pragmatismo. Da un anno Teheran imposta la sua strategia non più per evitare il confronto con l’Occidente, ma per ampliare la propria influenza in Medio Oriente. Vuole diventare, anzi lo è già, una potenza regionale. E per la prima volta si rende conto che il suo messaggio raccoglie consensi anche tra le popolazioni arabe sunnite. È una svolta epocale: dall’epoca khomeinista la storica inimicizia tra le due correnti dell’Islam - sciiti e sunniti - era stata la miglior garanzia contro i rischi di un contagio integralista dall’Iran verso i Paesi circostanti. Oggi nonostante in Irak sia in corso una guerra etnico-religiosa tra le due fazioni musulmane, il messaggio dello sciita Ahmadinejad seduce i sunniti in gran parte del Medio Oriente. In rotta Al Qaida, disperso Bin Laden, morto Arafat, rientrata nei ranghi l’Arabia Saudita - che nei giorni scorsi ha addirittura invitato i palestinesi ad arrendersi alla superiorità militare degli israeliani - il presidente iraniano è l’unico leader capace di interpretare le frustrazioni delle masse arabe.
E ora ha deciso di rendere effettiva la sua leadership, approfittando degli errori commessi dagli Usa e in parte anche da Israele. Ahmadinejad è forte anche perché gli Stati Uniti appaiono deboli sia sul fronte diplomatico che su quello militare, ben diversi dalla superpotenza che tre anni fa sognava di imporre un nuovo ordine democratico in Medio Oriente. Nessuno li teme più, meno che meno l’Iran. Le violenze delle ultime settimane sembrano rientrare in una strategia ispirata da Teheran: esplode l’Irak, dove le milizie sciite rispondono al sangue col sangue, facendo precipitare il Paese verso la guerra civile. Esplode la Palestina, dove Hamas e Jihad optano per la linea dei sequestri, emarginando i leader moderati. Esplode il Libano del Sud, dove Hezbollah riesce a infrangere un duro colpo al prestigio di Israele e al contempo alla credibilità del nuovo governo libanese, il primo dopo il ritiro delle truppe siriane. Intanto Teheran, stringe un patto di mutua difesa con Damasco avvertendo che qualunque attacco contro la Siria verrà considerato come un atto di guerra contro l’Iran.

E Ahmadinejad respinge l’ultima offerta di dialogo sul nucleare, sapendo che in questo momento un attacco Usa è altamente improbabile. È spavaldo, il presidente iraniano; vuole imporre nuove regole del gioco. Ci vorrebbe una risposta forte e, soprattutto, credibile; ma l’Occidente non sa come reagire.
marcello.foa@ilgiornale.it

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