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Nuovi piani del Pentagono per la guerra al terrorismo

Per battere Al Qaida sarà necessario un «conflitto lungo» e non convenzionale

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Su un punto, si potrebbe dire, Bush e Bin Laden sono d’accordo: che quella fra l’America e il fondamentalismo integralista musulmano è una guerra globale, senza frontiere e pertanto non si può condurre con i metodi tradizionali. Il capo di Al Qaida lo ha proclamato ancora una volta, al fine di incitare i «mujaheddin», i «combattenti», ad attaccare ovunque i «crociati sionisti», dalla Palestina al Sudan. Nelle stesse ore il ministro della Difesa Rumsfeld ha reso noto un nuovo piano per la lotta globale al terrorismo che potrebbe comportare una profonda revisione delle strategie militari Usa. La frase chiave è «guerra lunga». A questa il Pentagono si prepara, senza fare previsioni o azzardare date. Partendo dal riconoscimento implicito che operazioni militari condotte contro degli eserciti o dei Paesi, come è accaduto in Afghanistan e in Irak, non bastano a risolvere il problema del terrorismo. Qualcuno potrebbe leggere in queste formule una sorta di autocritica, un qualche riconoscimento che avevano ragione i generali americani, la Cia e il Dipartimento di Stato quando si sforzavano di convincere l’amministrazione a prendere subito questo tipo di approccio. Ma chi conosce Rumsfeld sa che non è da lui che ci si possono attendere revisioni o scuse.
Non a parole, nei fatti sì. Per quel tanto che è stato reso di un insieme di piani evidentemente in gran parte segreti, si deduce una nuova strategia articolata in tre documenti. Il primo, il più generico, è una specie di analisi storica di questi anni di battaglia. Gli Stati Uniti devono affrontare il terrorismo con mezzi diversi dalla guerra convenzionale in stile ventesimo secolo: la fanteria, i carri armati, le navi, gli aerei, i missili intelligenti, la tecnologia militare d’avanguardia non bastano per affrontare organizzazioni terroristiche clandestine, un nemico difficile da scovare e a volte perfino da identificare e soprattutto senza una base territoriale da colpire. Occorre invece concentrare gli sforzi su operazioni più simili a quelle di polizia, attività militari, in parte clandestine, basate di più sul fattore umano che sulla potenza degli eserciti. Raccolta di informazioni sulle reti terroristiche, attacchi ai campi di addestramento e agli uffici di reclutamento di Al Qaida e organizzazioni collegate o simili, squadre specializzate nella caccia all’uomo, collaborazione con forze militari straniere per eliminare i «santuari» dei terroristi. Inoltre la concentrazione degli sforzi contro i leader dei gruppi nei singoli Paesi, un maggiore controllo delle comunicazioni dell’apporto logistico e, infine, una controffensiva «ideologica». Un punto, quest’ultimo, particolarmente importante e delicato ma non nuovo, perché richiama alla memoria l’«ideologia» che la Francia sviluppò durante la guerra d’Algeria, adottando molti dei metodi oggi suggeriti da Rumsfeld anche se, come ricordiamo, senza un esito positivo.
Una parte più dettagliata del piano riguarda organizzazioni terroriste specifiche, soprattutto più di due dozzine di gruppi che operano in ordine sparso nel Medio Oriente, nell’Asia Centrale, nell’Asia Meridionale e in Africa e che vanno dalla Jihad islamica in Egitto, all’Ansar al-Islam nel Medio Oriente, all’Jemaah Islamiya in Indonesia, il Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento nell’Africa Sahariana.
Un terzo programma riguarda la difesa del territorio americano e in genere la «liberazione» dei militari da certi controlli civili (per esempio dalle ambasciate Usa all’estero, che non dovranno più obbligatoriamente essere consultate) e in genere l’estensione di operazioni militari ad aree non in guerra.

Poche ore prima il responsabile nazionale dell’intelligence John Negroponte aveva annunciato che sono già in azione in tutto il mondo oltre 100mila spie americane.

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