Un altro agguato. Un altro scontro a fuoco. E ancora una volta, a meno di una settimana di distanza dall'attentato di Kabul in cui sono morti sei parà, nel mirino dei talebani ci siamo noi italiani. Un ferito, stavolta. Ferito al braccio. «Ferito lieve», si legge nel comunicato diffuso dal comando militare italiano a Herat, nell'ovest del Paese affidato al nostro contingente. Anche se poi tanto lieve questa ferita non dev'essere, visto che il braccio del paracadutista risulta spezzato.
La cronaca dell'episodio è scarna. Essenziale il testo del comunicato diffuso dal nostro comando. Banale, ripetitiva la tecnica dell'agguato. Abituali anche i luoghi e le circostanze in cui lo scontro è avvenuto: le sabbie e le arsure di Shindad, 100 chilometri a nord di Farah, durante una delle quotidiane operazioni di controllo del territorio affidato a pattuglie miste italo-afghane.
Il livello dello scontro dunque resta alto, a dispetto della brevità e della laconicità di un comunicato che nelle intenzioni, forse, vorrebbe stemperare l'allarme suscitato nell'opinione pubblica dal trauma inflittole la settimana scorsa e prepararla, al contempo, a uneventualità che potrebbe essere non remota: quella di nuovi, reiterati, sanguinosi attacchi alle nostre forze armate. L'autunno, con le sue tempeste di sabbia, e poi l'inverno, con la neve che blocca i passi di montagna e rende inaccessibili i "santuari" dei talebani, sono destinati a rallentare obiettivamente l'attività degli insorti. È ora, dunque, ragionano i guerriglieri del mullah Omar: ora che gli Stati Uniti e i loro alleati si domandano se sia giusto, se valga la pena appoggiare il regime di un presidente truffardo e corrotto come Karzai, che vale la pena di battere il ferro, veicolando a furia di bombe e di kamikaze nuovi dubbi nella coalizione e ingigantendo le perplessità che lo stesso presidente degli Stati Uniti ha rivelato alla nazione parlando in Tv.
La guerra in Afghanistan, del resto, è una guerra persa sotto il profilo squisitamente militare. Lo dice (lo ha detto a noi, un mese prima delle elezioni) il generale Rosario Castellano, comandante della Folgore e lo pensa, verosimilmente, anche il generale Stanley McChrystal, comandante in capo della spedizione alleata. Più che una guerra persa - per seguire il ragionamento del generale Castellano - sarebbe meglio dire una guerra impossibile da vincere con il solo uso delle armi, come lo sono tutte le guerre asimmetriche: da una parte un esercito con gli aeroplani, le bombe intelligenti, i blindati, le truppe speciali e gli armamenti speciali (ma anche una burocrazia e una catena di comando lunga e complessa). Dall'altra, bande di guerriglieri ("insorti", amano dire gli americani) legati a ras locali che si muovono con l'agilità e l'imprevedibilità tipiche degli irregolari. Gente spesso estremamente motivata, calata in un territorio che conosce come le sue tasche, appoggiata da una popolazione che spesso li "scambia" per amici.
Quale deve essere dunque la strategia? «Costruire ponti e portare il latte», all'interno di un quadro di sicurezza che punti ad affrancare la popolazione dal ricatto talebano, semplificò Castellano. McChrystal, che più di una volta ha portato ad esempio l'approccio degli italiani, dice la stessa cosa, anche quando chiede l'invio di nuove truppe: «Conquistare territori e tenerli. Proteggere la popolazione dai talebani, non bombardarla. Ricostruire». Il problema è che il mullah Omar, il capo dei talebani, lo sa. E agisce di conseguenza, esacerbando lo scontro.
Barack Obama, il presidente che a poche settimane dal suo insediamento mandò baldanzosamente altri 21mila soldati a Kabul, è in mezzo, i pensieri tarlati da dubbi e ripensamenti. Il «rimorso dell'acquirente», lo definiscono al Pentagono.
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