Politica

«Il nuovo corso? Litigare sì, ma in silenzio»

da Bologna

Tortellini, benessere e fedeltà al partito, il tutto condito con dosi di consociativismo massiccio. È la ricetta che ha garantito per 60 anni l'egemonia dei comunisti e dei post comunisti con percentuali che una volta si sarebbero dette bulgare: Emilia Romagna e quindi Toscana, Umbria e dal '76 nelle Marche; poco meno di dieci milioni di abitanti, pressappoco un quarto del Paese.
«Il modello emiliano può essere riassunto nella formula riformismo più tradizione ideologica. Ma - avverte il professor Piergiorgio Corbetta, direttore dell'Istituto Cattaneo, Fondazione Il Mulino, che da queste parti è una bussola per orientarsi sul “pianeta rosso” - ne è nata una cultura conservatrice a dispetto delle parole rivoluzionarie».
Nel libro «La sconfitta inattesa» Gianfranco Baldini, Piergiorgio Corbetta e Salvatore Vassallo hanno tracciato un'analisi spietata di come il partito e la sinistra «conservatrice» grazie agli errori madornali compiuti negli Anni '90, soprattutto durante la giunta di Walter Vitali, hanno perso Bologna dal '99, quando nella repubblica del socialismo reale «alla padana» vinse Giorgio Guazzaloca - outsider sostenuto dal centrodestra - al 2004.
«Con Vitali diventa evidente la crisi di quel modello che si basava sul collegamento amministrazione-partito-Cgil-coop e sulla capacità di includere anche gli interessi estranei alla subcultura comunista - è l'opinione di Sebastiano Vassallo, politologo -. Vitali ha cominciato a sperimentare l'attrito tra la cultura riformista del Pci emiliano, da lui interpretata nella maniera più blairiana possibile, e la sinistra radicale, anticipando così la frattura poi emersa anche a livello nazionale con il governo Prodi».
Sul tema, tanto per cambiare, della «legalità», costato salatissimo alla sinistra nelle elezioni del '99, l'amministrazione Vitali impiegò tre mesi per sfornare l'ordinanza sulle multe da comminare agli automobilisti-clienti delle «lucciole». Ordinanza poi mai applicata. Dai tentativi di vendere le farmacie comunali alle privatizzazioni, il povero Vitali si ritrovava ogni giorno impallinato dal segretario cittadino del Pds Alessandro Ramazza, «cecchinato» da Rifondazione, crocifisso dalla Cgil.
Istruttiva anche la maniera in cui la sinistra si è giocata la città per cinque anni. Per cinquant'anni il partito si era «accontentato» di occupare ogni spazio di potere eccetto qualche oasi tradizionalmente riservata alla Dc, come la Camera di commercio. Nell'ubriacatura del nuovo corso volle imporre alla presidenza della Camera di commercio un uomo proprio al posto del candidato naturale che era Giorgio Guazzaloca. «Il vecchio Pci sarebbe stato molto più cauto - osserva il professor Vassallo -. Non era mai accaduto che a Bologna una categoria come quella dei commercianti facesse la guerra al partito come quella che poi fece sotto la guida di Guazzaloca».
E adesso? Il controllo pare restaurato su ogni ganglio del potere. È molto improbabile un sistema di alternanze».
«Qui sono pochi gli interessi esclusi dal gioco decisionale nella destinazione delle risorse - ammette il professore -. È un sistema che si è potuto permettere di garantire tutto e tutti». Certo, «sicuramente un sistema poco competitivo qualche patologia la genera».
E Cofferati? «La scelta di Cofferati sindaco ha a che fare con la crisi Vitali e del modello emiliano - risponde -. Da tempo è in crisi il modo di selezionare il personale politico. I Ds avrebbero voluto candidare come primo cittadino qualcuno di loro, ma non avevano le personalità idonee. Il fatto che si sia riproposto lo scontro con Rifondazione indica che questo è un tratto irrisolvibile della sinistra italiana. E che le virtù taumaturgiche di Cofferati, capaci di integrare le componenti radicali, non erano così fondate».
Una lezione i Democratici di sinistra sembrano comunque averla imparata.

«Eviteranno che d'ora in poi le loro divisioni interne emergano pubblicamente».

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