Obama alla Cina: gioco di squadra E lancia la diplomazia del basket

Obama alla Cina: gioco di squadra E lancia la diplomazia del basket

La metafora è sportiva. Barack Obama assicura di aver «imparato molto da Yao Ming», la star del basket cinese che gioca a Houston, che una volta ha detto: «Non importa se sei un giocatore esperto o se sei agli inizi. Comunque hai bisogno di tempo per adattarti al gioco di squadra». Il giocatore esperto è l’America, quello nuovo la Cina e da oggi giocano nella stessa squadra.
Diplomazia della pallacanestro, l’hanno subito ribattezzata i media americani, ma il suo messaggio è politico e rivoluzionario. Perché in occasione del primo dei vertici bilaterali, aperto ieri a Washington, il capo della Casa Bianca non si è limitato ad auspicare migliori relazioni, ma ha di fatto offerto la prospettiva di una leadership congiunta, graduale, consensuale, ma irreversibile. «I destini del Ventunesimo secolo dipenderanno dalle relazioni tra i nostri due Paesi», ha dichiarato, spiegando che «le ultime crisi hanno messo in chiaro come le scelte all’interno dei nostri confini si riverberano in tutto il mondo e questo non è vero solo per New York e Seattle, ma anche per Shanghai e Shenzhen». Non è vero e Obama, in cuor suo, ne è consapevole. Pechino non è ancora una superpotenza e negli ultimi anni nessun fatto accaduto al suo interno ha condizionato la comunità internazionale, ad eccezione delle Olimpiadi. È ancora l’America a far notizia e a dare il tono al mondo.
Eppure Obama è costretto ad anticipare il futuro, riconoscendo a Pechino uno status certo prematuro. Paga la scarsa sagacia strategica dei leader americani degli ultimi vent’anni e del turbocapitalismo a stelle e strisce, che ha spinto le grandi aziende a trasferire buona parte della produzione industriale in Cina, mentre in patria la crescita economica era alimentata dalle alchimie finanziarie e in ultima analisi dal debito.
Risultato: oggi la Cina è il Paese che ha le maggiori riserve valutarie ed è anche quello che detiene la maggior quantità di Buoni del Tesoro statunitensi. L’America il più indebitato al mondo e obbligato a contare sulla disponibilità degli investitori stranieri a finanziare deficit sempre più alti.
Nel discorso di ieri Obama ha delineato un riequilibrio tra le potenze. L’America alza lo status della Cina. «Da voi alcuni pensano che gli Usa tenteranno di frenare le vostre ambizioni, da noi c’è chi teme la vostra crescita. Io propongo un approccio diverso», nella convinzione «che nessuno potrà difendere i propri interessi da solo». In cambio chiede che la Cina non rinunci al dollaro come riserva internazionale e che pertanto continui a comprare Treasury bonds, dando tempo agli «americani di risparmiare di più e ai cinesi di consumare di più».
L’abbraccio di Obama è onnicomprensivo. «Assieme possiamo promuovere la stabilità dei mercati finanziari, progettare un’ambiziosa ed equa riforma degli scambi commerciali nel mondo (il Doha Round), cercare nuove idee per risolvere il problema climatico», ha dichiarato, conciliante, comprensivo, anche su temi scottanti.

A due settimane dalle proteste degli uiguri musulmani e nonostante la storica amicizia con il Dalai Lama, si è limitato ad auspicare il «rispetto delle minoranze religiose ed etniche». In Cina, ovviamente «ma anche negli Stati Uniti». Equanime oltre il buon senso. Tanto per chiarire.

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