Obama in Cina parla di internet ma non del Tibet

Usa e Cina hanno «differenti tradizioni». Lo sa bene Barack Obama, che ieri ha usato questa spiegazione per indorare la pillola al governo di Pechino mentre, tra le altre cose, nel suo discorso davanti ai «futuri leader cinesi» ne criticava la politica di censura del web. Ai selezionatissimi 520 studenti presenti al Museo delle Scienze e della Tecnologia di Shanghai che chiedevano il suo parere sulle restrizioni alla libertà di accesso al web, il presidente americano ha risposto che «esistono diverse tradizioni, ma l’uso senza restrizioni di internet rafforza il sistema: maggiore è il flusso di informazioni, più forte diventa la società». E siccome Pechino tiene alle tradizioni, proprio mentre Obama parlava (nel modo più diplomatically correct possibile) dei temi più scottanti nelle relazioni Usa-Cina, il regime comunista non mancava di onorarne una delle più «care»: l’arresto di attivisti per i diritti umani.
Secondo il gruppo Chinese Human Rights Defenders (Chrd), la polizia cinese ha fatto piazza pulita di almeno 20 persone in tutto il Paese per evitare che riuscissero a incontrare in qualche modo il presidente Usa. Alla vigilia dell'arrivo di Obama in Cina, domenica notte, decine di attivisti e dissidenti sono stati prelevati dalle loro case e spediti in viaggi forzati fuori città insieme a poliziotti, oppure messi sotto controllo 24 ore su 24, per impedire eventuali contatti con la stampa internazionale o la delegazione statunitense.
Nella sola Shanghai - dove Obama ha iniziato il suo tour cinese che si chiuderà domani a Pechino - sono sette gli attivisti detenuti. E ieri è rimasta in stato di fermo per due ore anche Emily Chang, corrispondente della Cnn, arrestata per aver filmato la t-shirt «ObaMao», con l’immagine del presidente in uniforme dell’Armata Rossa.
A Pechino, cinque dissidenti sono stati costretti a lasciare la città per «non creare guai» durante la visita del presidente Usa. E per parlare di libertà sul web, la blogger Liu Di è da due giorni in «esilio forzato» fuori dalla capitale cinese. A Zhang Hui, direttore dell'istituto di ricerca «Mr Democracy», i poliziotti hanno spiegato che le misure di stretto controllo sulla sua persona sono necessarie «per garantire il successo della visita di Obama».
Nel rispondere agli studenti cinesi Obama ha dosato gli inviti alla collaborazione con quelli a migliorare gli standard dei diritti umani. Ha elogiato gli sforzi della Cina nello strappare milioni di persone dalla povertà e ha suggerito un nuovo stile di rapporti fra le due superpotenze: «Il concetto che dobbiamo essere avversari non è qualcosa di predestinato». Allo stesso tempo si è detto convinto che «libertà di espressione e di religione, di accesso alle informazioni e alla partecipazione politica siano diritti universali... di tutti, comprese minoranze etniche e religiose».
E qui si è fermato. Tra i rapporti commerciali, la censura su internet, la parità di diritti uomo donna, la spinosa questione dell’indipendenza di Taiwan, Obama non è riuscito a pronunciare la parola «Tibet», la regione dove il regime cinese opera da anni dure politiche repressive e di controllo. Si tratta probabilmente dell'ennesimo gesto di «buona volontà» del capo della Casa Bianca che già un mese fa, rompendo una tradizione mantenuta per anni da tutti i presidenti Usa, aveva evitato di ricevere il Dalai Lama temendo di irritare Pechino.
Proprio qui Obama si è spostato ieri sera per una serie di colloqui con i vertici cinesi.

Ha promesso di tornare a parlare di diritti umani, ma i temi in agenda oggi con il presidente Hu Jintao sono di ben altro carattere: dai rapporti commerciali, alla annosa battaglia di Washington per la rivalutazione dello yuan (il cui tasso di cambio, secondo i Paesi occidentali, viene tenuto artificialmente basso dal governo cinese, che in questo modo fornisce un vantaggio sleale al suo export) passando per il programma nucleare di Iran e Nord Corea fino alle politiche per combattere i cambiamenti climatici.
Ce n’è abbastanza, appunto, per non voler irritare il nuovo «alleato».

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