Barack Obama arriverà a Copenaghen all’alba, scenderà dall’Air Force One con la faccia gonfia di sonno e i riflessi appannati dal jet-leg. Un’auto lo porterà di fronte al Comitato Olimpico internazionale. Per tre ore stringerà mani, darà pacche sulle spalle, prometterà, sottovoce, favori o trattamenti di riguardo, magari qualche investimento nei Paesi più poveri. Nulla di particolarmente scandaloso: lo fanno tutti, anche se nessuno, ovviamente, lo ammette.
Poi salirà sul palco, assieme a sua moglie Michelle, che è arrivata in Danimarca 24 ore prima di lui, e per 45 minuti sosterrà appassionatamente la candidatura di Chicago quale sede delle Olimpiadi del 2016. Nulla di particolarmente originale: lo fanno anche i leader degli altri Paesi in lizza, come il brasiliano Lula, il premier giapponese Yukio Hatoyama, il premier spagnolo Zapatero, che si presenta assieme a re Juan Carlos e alla regina Sofia.
E invece per l’America la presenza di Obama è un evento, che solo metà dei cittadini apprezza, perché in passato mai un presidente americano si era scomodato di persona per sostenere la candidatura di una città alle Olimpiadi. I predecessori di Obama non la ritenevano una missione degna del loro rango, ancorché inutile. Quando gli Usa erano l’unica superpotenza, la vittoria sarebbe giunta naturalmente, quale riflesso dei rapporti di forza e della vittoria geostrategica sull’Unione Sovietica. Vedi i Giochi di Atlanta 1996, tanto per intenderci.
Ma ora l’America, sebbene ancora prima, non è più super e la decisione di Obama testimonia il suo nuovo profilo nel mondo. Il presidente che tende la mano a tutti e assicura che il suo Paese non vuole essere diverso dagli altri, lo ha reso normale a tal punto da non riuscire ad assicurarsi nemmeno un successo simbolico come questo.
«Vladimir Putin e Tony Blair fecero lo stesso per sostenere le candidature di Sochi e Londra», ha ricordato la Casa Bianca, nel tentativo di spegnere lo scetticismo di parte dell’opinione pubblica e dei repubblicani, che si chiedono per quale ragione debba sottoporsi a un viaggio lampo di 18 ore per presentarsi di fronte al Cio, mentre è chiamato a prendere decisioni importanti sull’Afghanistan, sul nucleare iraniano, sulla riforma sanitaria.
Già, Obama si comporta come Putin, ma fino all’altro ieri era Putin che sognava di imitare il suo omologo statunitense. Il livellamento c’è stato e non può certo rallegrare l’establishment americano.
La sfida di oggi a Copenaghen assume pertanto una valenza che va oltre l’ambito sportivo. Qualcuno, sulla stampa Usa, ha ricordato che i Giochi sono un affare da 10mila milioni di euro. Vero. Altri hanno evocato suggestioni sentimentali per giustificare il viaggio del «Comandante in Capo», ricordando che Chicago è la sua città di elezione; mentre c’è chi sospetta motivazioni meno nobili, come quella di saldare debiti con il sindaco-boss Richard Daley, da sempre, suo padrino politico.
Ipotesi plausibili o forse no, ma a questo punto secondarie. La partita più significativa è geopolitica e si gioca sull’immagine. Il leader che incantava le folle promettendo il cambiamento e un mondo migliore, viene criticato severamente da buona parte degli elettori statunitensi, ed è seguito con crescente perplessità nelle cancellerie internazionali. A nove mesi dall’insediamento il bilancio in politica estera non è incoraggiante: le continue aperture al dialogo, reiterate nel discorso all’Onu, raramente sono state corrisposte; la linea nei confronti dell’Iran è ondivaga, quella in Afghanistan amletica, mentre la Cina continua, indistrubata, ad espandere la propria influenza in Africa e persino in America Latina.
La moderazione della nuova Amministrazione rischia di essere scambiata per debolezza. Obama deve cambiare marcia, allontanando il sospetto di essere un nuovo Carter. Ha puntato su Copenaghen e ora non può permettersi di perdere.
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