Obama: fra i punti deboli c’è quel «middle name»

Caro Granzotto, i giornali di tutto il mondo, riferendosi al Presidente degli Stati Uniti utilizzano sempre il suo secondo nome, Walker, o per lo meno la sua iniziale. Nessun giornalista si è mai sognato di far comparire anche il secondo nome di Barack Obama, forse perché molto scomodo o imbarazzante o - per essere gentili - cacofonico. Già, perché non dire che Barack Obama si chiama Hussein? Forse per non sottolineare il fatto che è musulmano? Forse parte dell’opinione pubblica americana, europea e italiana cambierebbe idea e si farebbe qualche domanda in più sull’opportunità di avere un seguace di Maometto alla guida degli Stati Uniti proprio in questo difficile momento storico.


Quando si crea un mito, caro Barbieri Carones, si presta molta attenzione ai particolari. Dove, come è ben noto, si annida il diavolo. Come lei osserva, nel mondo anglosassone il middle name figura sempre, foss’anche con la semplice iniziale, nelle generalità. Ma quell’Hussein, che pure è il middle name di Barack Obama, evidentemente non è stato giudicato, dai costruttori di miti, opportuno. Se di secondo nome Obama si fosse chiamato Mamadou o Jomo o Kipkalya, appellativi che avrebbero sottolineato la sua negritudine (negritudine si può dire, risultando ridicolo neritudine), nessuno avrebbe sollevato eccezioni, anzi. Ma Hussein richiama immediatamente all’islam e l’islam, chissà perché, richiama al fondamentalismo e il fondamentalismo al terrorismo. Quindi, niente da fare: per il Grande Barnum Massmediatico Obama si chiama Barack, punto e basta. Però, anche se ha ricevuto quel secondo nome il candidato democratico non è musulmano. Lo era il padre, non lui che, cresciuto con la madre divorziata tra Giakarta e Honolulu, rimase alla larga dalla religione finché, alla metà degli anni Ottanta, non incocciò nel reverendo Jeremiah Wright, il pastore della Trinity United Church of Christ di Chicago, dal quale ricevette la fede e il battesimo e che in seguito benedisse le sue nozze con Michelle Robinson.
Uno dei talloni d’Achille di Barack Obama è proprio l’appartenenza alla chiesa di Wright, dove la Bibbia è impugnata come fosse un mitra che spara a raffica per il riscatto dagli afroamericani. Il reverendo Wright le ha tutte e, per un buon americano, tutte sbagliate: è, ma questo non sorprende, un apostolo della teologia della liberazione; è favorevole all’aborto e al matrimonio fra omosessuali; accusa gli americani bianchi di aver creato in laboratorio e poi diffuso in Africa il virus dell’Aids, di procacciare droga a buon mercato ai giovani neri per poterli mettere in prigione ed escluderli così dalle università, di aver orchestrato, assieme agli israeliani («razzisti bianchi»), l’11 Settembre. Wright predica che l’America è «la nazione più pericolosa, fondata e ancora oggi governata da razzisti». Per cui non si deve intonare il God Bless America, ma il «Dio maledica l’America». Quanto ai suoi amici, ai suoi referenti, ai suoi «fratelli»: Gheddafi e il leader antisemita e antisionista Louis Farrakhan.
Questo è l’uomo che ha formato, spiritualmente e politicamente (circostanza confermata da Obama medesimo nel libro The Audacity of Hope), il candidato democratico.

Il quale al reverendo Wright deve anche la sua efficace, suadente oratoria, mutuata dai sermoni ascoltati nella Trinity Church di Chicago e infatti emotiva, generica, ecumenica, nutrita di messianesimo. Quella è la sua vera forza, la chiacchiera. Un vero pifferaio di Hamlin, dunque. Resta da vedere, e lo vedremo presto, quanti topi riuscirà poi a portarsi dietro.

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