La parola serve. E tanto. Un uragano è più credibile, se gli dai un nome, Katrina, ad esempio. Una guerra è più accettabile se sorretta da un slogan nobile, come Restore Hope, ridare speranza, usato per la prima guerra umanitaria in Somalia all’inizio degli anni Novanta. Ma non basta a cambiare le sorti di un conflitto. In Somalia finì male. E in Irak va così così, come sappiamo.
Eppure Barack Obama, il quale di comunicazione se ne intende, sembra convinto che un nome possa avere anche proprietà taumaturgiche, ovvero che basti cambiarlo per cambiare con esso la realtà. Il Pentagono, infatti, ha deciso di abbandonare la denominazione Iraqi Freedom, libertà per l’Irak, a tutti noi ben nota, per adottarne una nuova: Operation New Dawn, ovvero Operazione Nuova Alba. Suggestiva, immaginifica, ispirante, non c’è che dire. Il sole che sorge su un nuovo Irak. Piacerà, tantissimo, ma appare perlomeno prematura.
La situazione a Bagdad e nelle altre città è migliorata rispetto a un paio di anni fa. Ci sono meno attentati, meno violenze, ma la situazione appare tutt’altro che consolidata. L’Irak continua a vivere nella precarietà, in un clima di odio latente, che potrebbe riesplodere in qualunque momento; forse già il 7 marzo, quando gli iracheni si recheranno alle urne per rinnovare il Parlamento. E le elezioni, finora, non hanno portato bene. Astensioni, polemiche, violenze. E bombe, tante bombe. Prima e dopo il voto; con l’incognita dell’Iran, che controlla buona parte delle fazioni sciite, maggioritarie nel Paese, e che potrebbe fomentare l’instabilità al di là del Tigri e dell’Eufrate, se, come è probabile, le tensioni con Washington sul programma nucleare di Teheran dovessero aumentare.
Un’alba che è anche sorprendente. Ma questo non doveva essere l’anno del primo grande ritiro americano? Obama lo aveva promesso in campagna elettorale e lo aveva ribadito appena eletto: via, al più presto. Ora scopriamo che la realtà è un po’ diversa. La maggior parte delle truppe rimarrà nel Paese, concentrata nelle sei megabasi permanenti e nelle altre 13 logistiche, sparse in tutto il territorio. L’America non lascia affatto l’Irak e i costi continueranno a gravare sul bilancio pubblico. Ma la nuova etichetta serve a confermare l’impressione di una svolta definitiva.
È un’operazione di marketing, congeniale a un presidente Obama il quale con le parole ha dimostrato di saperci fare. Ricordate? Obama prometteva Change, il cambiamento, A New Hope, una nuova speranza, esaltava i suoi fan urlando Yes, We Can, sì si può fare. Di quelle promesse è rimasto ben poco. Oggi sappiamo che Barack non è un riformista, ma un presidente legato a doppio filo con l’establishment finanziario e militare. Il suo stile, però, non è cambiato. È stato eletto vendendo un’illusione, ora spera che un’illusione sia sufficiente a far scordare agli americani la guerra in Irak e un’altra promessa tradita.
L’associazione Famiglie unite dei militari gliel’ha subito rinfacciato, ma la voce di quest’associazione è troppo flebile per essere udita. L’operazione potrebbe anche riuscirgli, considerata l’importanza degli slogan nella formazione della coscienza pubblica. Roosevelt è il presidente di cui ancora oggi si ricorda la frase «Non c’è nulla di cui aver paura se non della paura in sé». Kennedy conquistò i cuori degli elettori affermando «non chiedete che cosa il vostro Paese può fare per voi; chiedete che cosa potete fare voi per il vostro Paese», frase peraltro copiata dal motto del liceo frequentato dallo stesso Jfk. Reagan negli anni Ottanta marchiò l’Urss come «l’Impero del male», suscitando entusiasmo.
Non sempre le scelte sono appropriate.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.