Obama messo alle strette anche dalla lobby gay

OGGI Per le strade di Washington il folcloristico e contestato raduno

Un’altra partita da giocare, un nuovo pressing politico da sostenere. All’indomani del Nobel per la pace - un tributo che in realtà ha acceso i riflettori sulle promesse finora mancate del presidente americano - e alla vigilia del voto della Commissione Finanze, in Senato, sulla riforma sanitaria, Barack Obama si trova a fronteggiare l’influente platea di Human Rights Campaign, la principale organizzazione per la difesa dei diritti degli omosessuali in America. Un nuovo bilancio di cui dar conto per un presidente che si trova ormai di fronte alla corale richiesta di esibire risultati invece che promesse.
Indebolito più che rafforzato dal premio ottenuto a Oslo, caricato dalle aspettative crescenti della comunità internazionale ma soprattutto degli americani - che proprio in occasione del Nobel hanno passato in rassegna l’attività del presidente e ne hanno sottolineato ombre e carenze - Obama ha parlato ieri sera al Washington Convention Center di fronte ai vertici del movimento gay, circa tremila persone che aspettano di incassare i risultati dell’appoggio dato in campagna elettorale al leader democratico. La comunità gay gli ha garantito un anno fa il 70 per cento dei consensi e aspetta ora che Obama ricambi il favore, a cominciare dalla revisione della politica del «Don’t ask, don’t tell», che ha consentito finora agli omosessuali di entrare nelle Forze Armate a patto che non rivelino pubblicamente il loro orientamento sessuale. Bill Clinton, che nel 1997 era stato il primo presidente Usa a parlare a Hrw, aveva strappato il compromesso. Ora i gay, che hanno concesso al nuovo leader di diventare il secondo presidente a rivolgersi alla stessa platea, chiedono a Obama di più. Compreso un doppio intervento per favorire i matrimoni omosessuali e proibire la discriminazione sul lavoro.
Per questo il discorso di ieri, ancora prima di essere pronunciato, è già stato ribattezzato il «Big Gay Speech». Le aspettative, ancora una volta, sono alte. Ma gli equilibri, ancora una volta, sono fragili. Oggi, lungo il Mall della capitale, si svolge la National Equality March, il raduno per i diritti dei gay. Obama si è presentato alla cena con qualche buon risultato: ha nominato un gay ambasciatore in Nuova Zelanda e Samoa e ha ottenuto che la Camera approvasse in prima lettura una legge che trasforma in «reati d’odio» i delitti commessi a causa dell’orientamento sessuale delle vittime.
Ma la strada è in salita. E lo scoglio è la destra conservatrice e religiosa che ha annusato l’indebolimento del presidente degli ultimi tempi e che cavalcherà l’onda di critiche esplose dopo la vittoria - considerata prematura - del Nobel. Quella destra repubblicana che, nonostante le parole di ieri del presidente sulla riforma sanitaria - «siamo in dirittura d’arrivo» - darà battaglia fino alla fine. E in effetti sui gay non ha mai smesso. A cominciare da due episodi: la bufera esplosa su Kevin Jennings, un funzionario gay del Dipartimento dell’Istruzione, accusato di aver consigliato quando era ancora un insegnante (nel 1988) a un ragazzino di 16 anni di avere rapporti sessuali con un uomo adulto. E poi lo scandalo su Chai Feldblum, un’insegnante di legge nominata da Obama alla Commissione Pari Opportunità e accusata di difendere le relazioni promiscue e attaccare il matrimonio tradizionale.
Riforma sanitaria, diritti gay, guerra in Afghanistan.

C’è abbastanza carne al fuoco per mettere in ulteriore difficoltà il presidente. Un mix esplosivo. Che ha spinto la Casa Bianca ieri a evitare festeggiamenti ufficiali per il Nobel. Lo champagne, per ora, resta in frigo.

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