Ahmadinejad è pronto al dialogo con l'Occidente. Alle sue condizioni ovvero non lo vuole affatto. Ma conosce bene le logiche dei media e sa sfruttarle a dovere. Per qualche ora la proposta di un faccia a faccia con Obama, in diretta tv, già alla fine di settembre in occasione dell'Assemblea generale dell'Onu, ha fatto sensazione, lasciando intravedere una svolta spettacolare nei rapporti tra Stati Uniti e Iran. D'altronde non era stato il presidente americano a invocare un confronto senza precondizioni? Già, ma quell'offerta era stata formulata prima che il regime reprimesse nel sangue la rivolta popolare contro i brogli elettorali. Ora la situazione è cambiata, anche perché la Casa Bianca si è riavvicinata a Israele, che ha vincolato una ripresa del dialogo con i palestinesi a una maggior fermezza degli Usa contro Teheran.
Obama in otto mesi si è svezzato, ha capito che non bastano i buoni sentimenti per costruire un mondo migliore, soprattutto se hai a che fare con regimi di questa fattura. Ha capito che in diplomazia per ottenere dei risultati bisogna trattare da una posizione di forza, non di debolezza, mentre Ahmadinejad mira a screditare gli Usa e a ridicolizzare la sua persona. La proposta di un dibattito in tv, peraltro, non è nemmeno nuova, visto che era già stata formulata a Bush e allo stesso Obama, all'indomani delle presidenziali iraniane, ma è inaccettabile sia nella forma che nella sostanza. Il presidente iraniano vuole discutere «delle sfide globali» e su come le grandi potenze possano risolverle, ma si rifiuta di affrontare la questione del nucleare iraniano, che, anzi, considera «chiusa».
«Non c'è nulla da discutere. Continueremo a operare nel rispetto del diritto internazionale e in stretta cooperazione con l'Aiea, l'Agenzia internazionale per l'energia atomica, ma non rinunceremo ai nostri diritti inalienabili», ha ribadito ieri. Altro che apertura, Teheran ha sbattuto la porta in faccia all'Occidente e alla stessa Aiea, che proprio ieri ha dichiarato di non essere affatto soddisfatta delle risposte ottenute dagli iraniani, in una situazione che ha definito «di stallo».
L'impressione è che si vada verso una nuova crisi, non militare ma diplomatica. Gli Stati Uniti e l'Unione hanno inviato una proposta negoziale all'Iran, dando tempo fino alla fine di settembre per ottenere la risposta. Se sarà negativa o se l'ultimatum verrà ignorato, come avvenuto in passato, scatteranno nuove sanzioni, come chiede Israele. Le dichiarazioni di Ahmadinejad non lasciano presagire nulla di buono. La rivolta dello scorso giugno ha accentuato le paranoie dei fondamentalisti sciiti, che si sentono assediati. Sanno di non beneficiare più del sostegno della maggioranza della popolazione, sono invisi ai regimi arabi sunniti e diffidano proprio di Obama, essendo convinti che sia stato il presidente americano a fomentare i disordini all'indomani del voto. E si aggrappano sempre più al sogno della bomba atomica, che ora viene vista come fonte di legittimazione del loro potere. Sanno che quando disporranno di una o più testate nessuno oserà sfidarli, rischiando l'apocalisse.
La partita si deciderà in questi mesi ovvero prima che l'Iran completi il suo programma militare nucleare, che, peraltro, ufficialmente continua a negare. E non saranno certo le sanzioni a fermare gli ayatollah. Se nei prossimi mesi non inizierà un vero dialogo, l'ipotesi di un bombardamento preventivo tornerà d'attualità. Israele già scalpita e Obama lo sa.
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