Obama ha perso il Massachusetts. Ed è come se Bersani fosse stato battuto in Toscana o Berlusconi in Lombardia. Una sconfitta pesante. E non solo per la sua valenza sentimentale e simbolica. Il Massachusetts da 50 anni era democratico e il seggio al Senato per il quale gli elettori sono stati chiamati alle urne era quello di Ted Kennedy, il grande Ted, amato, rimpianto dai progressisti. Un simbolo. E un grande sostenitore di Obama. La sconfitta è soprattutto politica e avrà ripercussioni pesantissime sulla capacità di riforma dello stesso Barack.
Perché fino a due giorni fa il Partito democratico controllava 60 senatori su 100. Ora solo 59. Che cosa cambia? Tutto o quasi. Sessanta rappresenta la maggioranza qualificata che consente al presidente di evitare l'ostruzionismo dei repubblicani e dunque di approvare in tempi rapidi qualunque legge, a condizione che il partito sia compatto. Ora quel privilegio è svanito. E con esso l'armonia di un partito, nel quale, peraltro, già da tempo si erano aperte vistose crepe, che la sconfitta di martedì ha approfondito.
L'intero programma di Obama torna in discussione, a cominciare dalla legge a cui più temeva, quella della Sanità. Tecnicamente è già stata approvata dal Senato e al presidente basterebbe rimandarla alla Camera senza modifiche per riuscire ad approvarla.
Ma la versione del Senato non piace a molti deputati democratici, che ieri, a cominciare dalla stessa Nancy Pelosi, hanno già esternato le proprie perplessità, invocando un riesame del testo, che andrebbe pertanto riproposta sia alla Camera che al Senato. Insomma, sollecitano il Comandante in Capo a ricominciare daccapo. Un disastro per colui che voleva approfittare dei primi 24 mesi per far approvare in sequenza le riforme più delicate e incisive e che ora scopre di essere debole.
La democratica Martha Coakley è stata scavalcata dal repubblicano Scott Brown con il punteggio di 52 a 48. Un ko pesante. A ben vedere il terzo in tre incontri. Già perché nei mesi scorsi i democratici avevano perso altre due elezioni nel New Jersey e in Virginia, in circoscrizioni blu (il colore dei progressisti Usa) dunque in teoria sicure, seguendo lo stesso copione. Tutte e tre le volte il partito ha scelto candidati dalla personalità grigia, che confidavano, per vincere, sull'effetto Obama. E Obama si è speso per tutti e tre, in prima persona, soprattutto nelle fasi finali della campagna.
Ma l'uomo che 15 mesi fa faceva sognare le folle, ora suscita malumore, noia, talvolta irritazione. I sondaggi segnalano da tempo il tracollo della popolarità, passata da oltre il 70% a meno del 50%. Ora anche le urne confermano la rapida disaffezione degli americani per il primo presidente afroamericano della storia degli Usa. Che ora rischia di scoprire l'amarezza della solitudine.
Washington è cinica; in un anno elettorale ancor di più. A novembre milioni di elettori si recheranno alle urne per il rinnovo parziale del Congresso. E dopo le tre batoste consecutive i parlamentati penseranno soprattutto a conservare il proprio mandato. E se per riuscirci dovranno distanziarsi da Obama e prendere posizioni più conservatrici, non esiteranno a farlo. L'asset fino a ieri più prezioso, il presidente, è diventato improvvisamente ingombrante. E questo rischia di complicare i suoi sforzi per salvare la riforma della Sanità.
Di certo Barack non potrà più presentarsi come il presidente del cambiamento. Agli occhi degli americani ormai è il presidente dell'establishment, che dunque non può più far leva sull'indignazione popolare per ottenere consenso. Ci ha provato, proprio una settimana fa, annunciando con toni indignati e populistici, una tassa sulle grandi banche. Ma non è servito.
Anzi, il Massachusetts ha dimostrato che anche la destra può cavalcare il malumore popolare. Il repubblicano Scott Brown, è un affascinante 50enne, che ha condotto la campagna elettorale usando gli stessi slogan di Obama nel 2008: Change, change, change.
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