Barack Obama ha vinto. Quasi. Secondo mandato, altri quattro anni alla Casa Bianca. Si è ricandidato ufficialmente ieri e lo danno già per rieletto. Quasi. Perché non ha ancora un rivale credibile, perché non si vedono all’orizzonte una faccia e una storia alternativa alla sua. I repubblicani hanno vinto le elezioni di midterm dello scorso anno, ma non si sono ancora organizzati per le presidenziali del 2012. Mancano 18 mesi: non c’è un solo candidato vero. L’intenzione del palazzinaro Donald Trump di presentarsi alle elezioni appartiene al folklore più che alla politica. La verità è che oggi Obama ha la vittoria in tasca. Quasi. Nonostante i suoi errori, nonostante le sue debolezze, nonostante sia finita l’era dell’Obamamania globale, lui è ancora sufficientemente forte da potersi tenere il posto.
Può accadere di tutto, sì. L’imponderabile fa parte della vita e a maggior ragione della politica. Però non si intravede nulla se non lui, adesso. Il segnale più forte l’ha dato qualche settimana fa Karl Rove, lo stratega conservatore che ha portato al trionfo George W. Bush nel 2000 e nel 2004, ma soprattutto l’unico che nel 2008 ha indovinato fino al centesimo la proporzione della vittoria obamiana. Ecco, Rove ha scosso i repubblicani: «Forse è meglio che si organizzino bene per il 2016, perché l’anno prossimo sarà dura battere Obama». Lo stratega bushiano sta provando personalmente a mobilitare la destra e i suoi uomini di punta: la sua organizzazione America Crossroads punta a accumulare 130 milioni di dollari da donare alla campagna repubblicana. Ma il problema non sono i soldi. Quelli ci sono, eccome. I conservatori possono contare sulla disponibilità dei fratelli Koch che hanno già previsto un investimento di 88 milioni di dollari su chiunque possa battere Obama. I soldi ci sono. Solo che non ci sono né idee, né volti giusti. È come se i conservatori abbiano sciupato l’onda dell’entusiasmo per la vittoria del mid-term. Quel il clima di euforia è un ricordo. All’epoca erano tutti certi che Obama non si sarebbe rialzato dalla batosta elettorale. Invece il presidente ha cominciato una lenta, ma efficace risalita. Oggi la situazione s’è capovolta. Obama ha un livello di popolarità in costante aumento: è passato dal 42 per cento dello scorso novembre al 50 di oggi. Un risultato che lo rimette di buon umore dopo mesi di depressione politica nei quali alcuni democratici avevano addirittura pensato che sarebbe stato meglio non ricandidarlo. Adesso nessuno ci pensa più: Obama risale. Non piace a molti, però rosicchia consenso qui e là, un po’ per le scelte che fa, un po’ per l’istituzione che rappresenta.
Poi se la passa meglio di molti altri leader mondiali: Sarkozy in Francia, Merkel in Germania e perfino Cameron in Gran Bretagna oggi sono in caduta libera. Lui no. Lui è in ripresa. Lui sente di nuovo l’odore della vittoria. Ha mandato i suoi uomini a Chicago a preparare il terreno per il ritorno in pista. Yes we can o qualcosa del genere: uno slogan per se stesso e per l’America. Ora che è tutto pronto, compreso il simbolo e compresa la gran parte della strategia per riprendersi il Paese, ha fatto ripartire la macchina elettorale. Convinto di potercela fare. Anzi certo di farcela. Forse più per demeriti altrui che per meriti suoi, forse più per mancanza di avversari che per capacità di batterli. L’indecisione dei repubblicani è la miglior benzina per il motore del presidente. È un segnale di preoccupazione, di tensione, di incertezza che gli può dare un vantaggio decisivo. Oltre all’allarme di Rove c’è un altro segnale: molti dei potenziali candidati conservatori stanno prendendo tempo o hanno già rinunciato a correre. Il rischio di bruciarsi è troppo forte: se perdi con Obama nel 2012 è complicato ripresentarsi seriamente nel 2016. Così secondo Politico.com, le ultime rinunce repubblicane dicono che può veleggiare verso la rielezione quasi tranquillamente: hanno detto che non si candideranno il governatore del New Jersey Chris Christie, l’ex governatore della Florida Jeb Bush, è ancora molto indeciso il governatore dell’Indiana, Mitch Daniels. Sono tre sui quali molti repubblicani avevano puntato.
Sono tre che avrebbero potuto unire l’anima dei repubblicani moderati con quella dei ribelli del Tea Party.
Se nessuno di loro si candiderà, a destra potrebbero rimanere soltanto gli sconfitti di quattro anni fa: Sarah Palin, Mike Huckabee, Mitt Romney, più la variabile Newt Gingrich, il leader repubblicano che nel 1994 fece la rivoluzione conservatrice contro Clinton, la vinse, ma poi non riuscì nell’impresa di portare il suo partito alla vittoria alle presidenziali del 1996. Un precedente che non vale, certo. Ma che non piace comunque ai repubblicani.
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