Controcultura

"Odio quei romanzetti che sembrano traduzioni"

Incredibile: nel 1959 lo scrittore francese stroncava già i libri italiani che oggi collezionano premi...

"Odio quei romanzetti che sembrano traduzioni"

Mentre in Francia si discute polemicamente se ripubblicare o meno i celebri pamphlet antisemiti di Louis-Ferdinand Céline, da noi esce un ricchissimo volume con materiale raro o inedito del medico-scrittore: Un profeta dell’Apocalisse (Bietti). Il libro, curato da Andrea Lombardi, raccoglie testi perduti di Céline, interviste, lettere e testimonianze. Qui pubblichiamo un testo letterario di Céline del 1959 che sembra scritto pensando all’oggi...

Volete che vi parli di Rabelais? D'accordo, ho frugato nell'Enciclopedia questa mattina, quindi ora so. C'è tutto là dentro, nella Grande Enciclopedia. Si fanno carriere formidabili con essa. Appunto, ho cercato la voce Rabelais.

Vedete, con Rabelais si parla sempre di quel che non si deve. Si dice e si ripete, dappertutto: «È il padre delle lettere francesi». E poi c'è dell'entusiasmo, ci sono degli elogi, si va da Victor Hugo a Balzac e Malherbe. Il padre delle lettere francesi, ah la la! Mica così semplice. In verità, Rabelais ha fatto cilecca. Sì, ha fatto cilecca. Non ce l'ha fatta.

Quel che voleva fare era un linguaggio per tutti, uno vero. Voleva democratizzare la lingua, una vera battaglia. La Sorbona gli era contro, i dottori e tutto. Tutto quel che era acquisito e stabilito, il re, la Chiesa, lo stile, gli erano contro.

No, non è lui che ha vinto. È Amyot (Jacques Amyot, 1513-93, vescovo, scrittore e traduttore francese, ndr), il traduttore di Plutarco: lui ha avuto, nei secoli seguenti, molto più successo di Rabelais. È su di lui, sulla sua lingua, che si vive ancora oggi. Rabelais aveva voluto far passare la lingua parlata nella lingua scritta: un fallimento. Mentre Amyot, la gente ora vuole sempre e ancora Amyot, stile accademico. Questo è scrivere di m...: un linguaggio imbalsamato. Le colonne di un grande quotidiano del mattino, che si vanta di avere redattori che scrivono bene, ne sono piene. Si crea una cloaca di verbi che filano bene, frasi ben condotte, con piccole astuzie innocenti alla fine dell'articolo. Non pericolose, né troppo forti, per non spaventare il pubblico. E questo è il fallimento di Rabelais, l'eredità di Amyot. Della vera m..., aggiungo.

Rabelais ha voluto veramente una lingua straordinaria e ricca. Ma gli altri, tutti, l'hanno castrata, questa lingua, fino a renderla piatta. Così, oggi, scrivere bene è scrivere come Amyot, ma questa è solo una «lingua di traduzione».

Uno dei nostri contemporanei, quasi celebre, ha detto una volta, leggendo un libro: «Ah!, è bello da leggere, si direbbe una traduzione!». Ecco chi dà il tono.

Ecco la moderna peste del francese: fare e leggere delle traduzioni, parlare come nelle traduzioni. Ci sono persone che sono venute a chiedermi se non avessi preso questo o quel passaggio dei miei libri da Joyce. Sì, me l'hanno chiesto!, è logico, perché l'inglese è di moda. Io parlo l'inglese perfettamente, come il francese. Andare a prendere qualcosa da Joyce! No, come Rabelais, ho trovato tutto nel francese stesso.

Lanson dice: «Il francese non è molto artista». Niente poesia in Francia; tutto è troppo cartesiano. Ha ragione, ovviamente, Amyot, ecco un pre-cartesiano, ed è così che tutto è stato rovinato. Ma non era il caso di Rabelais: un artista.

Rabelais, sì, lui ha fallito, e Amyot ha vinto. I discendenti di Amyot sono tutti quei romanzetti castrati che escono oggigiorno presso le migliori case editrici. Migliaia all'anno. Ma io, di romanzi così, posso farne uno all'ora.

Eppure, non si pubblica che quello, dov'è l'eredità di Rabelais, la vera letteratura? Scomparsa. La ragione è chiara. Bisognerebbe comprendere una volta per tutte (basta verecondia!) che il francese è una lingua volgare, da sempre, dalla sua nascita al trattato di Verdun. Solamente, questo non si vuole accettarlo e si continua a disprezzare Rabelais.

«Ah!, è rabelesiano!» si dice talvolta. Questo vuol dire: attenzione, non è delicata quella roba lì, manca di correzione. E il nome di uno dei nostri più grandi scrittori è servito a forgiare un aggettivo diffamatorio. Mostruoso! Perché era un tipo molto forte, Rabelais, scrittore, medico, giurista... Ha avuto seccature, il poveretto, anche da vivo: passava il suo tempo a cercare di non finire al rogo.

No, la Francia non può più comprendere Rabelais: è diventata preziosa. È terribile a pensarci, avrebbe potuto essere il contrario, la lingua di Rabelais avrebbe potuto diventare la lingua francese.

Ma restano solo servitori, che ascoltano il padrone e vogliono parlare come lui. Viva l'inglese, il ritegno liscio!

Rabelais, mi direte, sente un po' il sistema: sì, insomma, questo tipo è stato braccato dalla persecuzione cattolica, faceva breccia tra i potenti. Sì, puzzava di eresia quello che faceva.

Ecco l'essenziale di quel che volevo dire. Il resto (immaginazione, potere di creazione, comicità, eccetera) non m'interessa. La lingua, solo la lingua. Ecco l'importante. Tutto quel che si può dire d'altro si trascina ovunque. Nei manuali di letteratura, poi leggete l'Enciclopedia. Se volete saperne di più, andate a chiedere a tutti quei grandi scrittori che, loro, hanno «idee su Rabelais». Ah!, quanti ne conosco che si metterebbero la testa tra le mani e vi direbbero con serietà: «Rabelais, che prodigioso inventore di parole!». Sono solo chiacchieroni.

Attenetevi piuttosto a quel che è interessante in Rabelais: la sua intenzione un po' demagogica di attirare il pubblico parlando come lui; lo capisco, io, Rabelais, era medico e scrittore come me. Si vede solo la crudezza. Era un buon anatomista del resto e, cosa prodigiosa per l'epoca, operava già. Sì, ha pure inventato, tra le altre cose, un apparecchio chirurgico.

Non doveva credere molto in Dio, ma non osava dirlo. Del resto, non è finito male, non ha subito un supplizio. È giunto dopo il supplizio, quando si è accademizzato il francese che si parlava per farne una letteratura da diploma e da licenza elementare.

Come dice Robert Poulet (1893-1989, scrittore e giornalista belga, ndr), si è fatto un francese magro mentre si aveva un francese grasso. Peggio: scheletrico. Nemmeno Balzac l'ha resuscitato. È la vittoria della ragione.

La ragione! Bisogna essere pazzi! Non si può far niente così, tutto castrato. Mi fanno ridere. Guardate quello che li contraria, non si è mai riuscito a fare «ragionevolmente» un bambino. Niente da fare. C'è bisogno di un momento di delirio per la creazione.

Ma no, in letteratura bisogna restare puliti. Allora oggi si mettono file di puntini quando succede qualcosa e poi si continua, molto tranquillamente: «L'indomani furono invitati tutti e due al ricevimento della duchessa». Oh!, non raccomando l'erotologia, mi disgusta, ma è terribile questo linguaggio troppo educato.

Quel che effettivamente c'è di buono in Rabelais è che metteva la sua pelle sul tavolo, rischiava. La morte incombeva su di lui, e la morte ispira! È la sola cosa che ispira, io lo so, quando sta lì, subito dietro. Quando la morte è in collera.

Non era uno che si godeva la vita, Rabelais: si dice ma è falso. Lavorava. E, come tutti quelli che lavorano, era forzato dal lavoro. Avrebbero volentieri voluto catturarlo, condannarlo. Altre galere, quelle del papa, è successo, è vero. E là, ragazzi, bisognava che remassero, ne vedevano, come direbbe Duhamel.

Anche Bardamu, il mio protagonista nel Voyage, lo direbbe. Ah!, gli imperfetti del congiuntivo...

Nella mia vita ho avuto lo stesso vizio di Rabelais. Ho passato anch'io il tempo a mettermi in situazioni disperate.

Come lui, non ho niente da aspettarmi dagli altri; come lui, non mi pento di nulla.

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