Umberto Veronesi è seduto nel suo studio allo Ieo, l'Istituto europeo di oncologia che ha fondato vent'anni fa. È circondato dai libri, volumoni spessi di medicina, e sulla scrivania ha anche l'ultimo che ha scritto, «Il mestiere di uomo» (Einaudi), dove racconta delle sue scelte e della sua vita «lunga, complessa, avventurosa, difficile», iniziata «nel 1925, l'epoca del delitto Matteotti». Oggi, a ottantanove anni, è il medico più celebre d'Italia. «Solo d'Italia?», ride.
Ma qual è l'idea che l'ha sempre sostenuta?
«Qualche volta me lo chiedo pure io. Credo che il mio sia uno sforzo enorme per dare un senso alla vita. Fin da piccolo ne percepivo la mancanza di senso, la ripetitività, il fatto che da milioni di anni si nasce, si cresce, si fanno figli, si muore. E avanti così, in una continuità che per me non ha una logica comprensibile».
E alla fine è riuscito a trovare un senso?
«No. E che scelte hai a quel punto? O ti uccidi, come hanno fatto tanti saggi, o cerchi un appiglio per sentirti almeno utile a questa comunità».
La medicina è questo senso?
«Ti senti motivato, portato a un impulso morale importante, aiuti i deboli. Per questo sono stato comunista, anche se poi ho lasciato per le nefandezze note».
La medicina è l'unico appiglio?
«Mi sono aggrappato anche alla procreazione. Ho sette figli e sedici nipoti: la mia ancora di salvezza, ciò che più di tutto mi tiene attaccato alla vita».
Ma come ha iniziato a studiare medicina?
«È stato dopo la guerra, la sua crudeltà, il nazismo. Volevo fare lo psichiatra per conoscere la nostra mente e capire in quale parte si scateni questa violenza».
Però poi ha scelto oncologia.
«Perché ho incontrato una violenza ancora peggiore, il cancro. Per la verità all'Istituto nazionale dei tumori entrai per caso».
In che senso?
«Dovevo fare pratica, e l'Istituto era vicino a casa... Ho fatto l'oncologo per pigrizia. Me lo consigliò il mio amico Leo Wachter, l'imprenditore teatrale che portò i Beatles in Italia».
E poi?
«Quando entrai e vidi la desolazione, la morte, il dolore, la rassegnazione, l'incapacità di reagire a questa malattia mi dissi: devo occuparmi di questo, non posso non combattere il cancro. E in tutta la mia vita non ho mai tradito questa passione, che mi ha colpito come un fulmine».
Una folgorazione?
«Ho scritto 830 studi, tutti sul cancro. Dieci trattati di oncologia. È un'ossessione per me. E a 70 anni, anziché andare in pensione, ho creato questo istituto. Anche ora non riesco a smettere di lavorare: è una nevrosi. Benevola, ma la è».
I progressi maggiori?
«Allora si moriva e basta. Oggi la guarigione media è del 65 per cento. Lentamente abbiamo sviluppato una chirurgia più attiva e risolutiva e una radioterapia efficace. Ma la chiave è un'altra».
Quale?
«Abbiamo parlato alla gente. Ne sono orgoglioso, perché già da giovane, quando c'erano tre, dieci persone ad ascoltarmi, andavo a spiegare l'importanza della consapevolezza, della diagnosi precoce».
Nello stesso periodo, la scienza in Italia come è cambiata?
«Fra alti e bassi. Alcuni settori sono di primissimo ordine, come l'astrofisica e la fisica nucleare. In oncologia ci sono buoni risultati, gli ematologi italiani sono i migliori. Diciamo che è stata abbastanza efficace in pochi settori».
Come mai secondo lei?
«Negli ultimi dieci, quindici anni l'impressione crescente è di declino. La scienza è finanziata sempre meno, perché non è più considerata fondamentale per l'umanità. Invece è il nostro futuro».
Qualche segnale positivo?
«Di buono c'è che ci sono pochi scienziati, perché i soldi sono pochi, ma nelle classifiche della produzione scientifica pro capite siamo i primi. Quindi pochi, ma molto bravi. C'è speranza per il futuro».
E che cosa pensa quando i giovani ricercatori vanno all'estero?
«Fanno bene. Tanto quello che scopriranno all'estero aiuterà tutti. La medicina e la scienza sono un'unica entità».
Non c'è campanilismo?
«No. Qui lavorano ragazzi di ventuno Paesi diversi, ma la scienza li unisce. Guardi, se quei ricercatori potranno tornare, bene. Ma per la scienza non è un problema, se uno va all'estero».
Una volta il medico era intoccabile. Oggi sempre più spesso finisce in tribunale...
«I diritti del malato vanno rispettati. Vede? Ho il decalogo qui alle mie spalle. Però sì, la facilità al tribunale oggi esiste. Ed è solo l'inizio: negli Stati Uniti è il problema maggiore della medicina».
Addirittura?
«Sono un Paese dominato dagli avvocati. E ormai molti giovani hanno paura di fare il medico, perché rischiano multe per milioni».
Lei su certi argomenti ha delle posizioni scomode...
«Sono gli altri a essere anomali».
... una sono gli Ogm.
«Ma non è una mia posizione, è la scienza. Tutta la genetica è un grande passo avanti se applicata all'uomo, e se invece la usiamo sulle piante è un'anomalia?» .
Quindi gli Ogm non sono il demonio?
«Sono solo piante più produttive e più sane. Una prospettiva per migliorare la produzione agricola nel mondo».
Lei è cresciuto in campagna. Le è servito?
«È stata una vita difficile, e di sicuro ha reso me e i miei cinque fratelli più forti, pronti alle avversità. E poi vedere la città da lontano è uno stimolo: sembra un punto di arrivo, un sogno. Lo era anche quando abitavo in periferia, in zona Lambrate».
Che cosa le ha insegnato sua mamma Erminia?
«Tolleranza e solidarietà».
E l'amore per le donne?
«Quello è cresciuto in me perché ho perso mio padre a cinque anni, era un fittavolo, mia madre era incinta del sesto figlio. Ci sono stati disagi enormi, ma lei non ha mai perso la fiducia nei suoi figli: li ha fatti studiare e si sono tutti laureati».
Però lei è stato bocciato due volte.
«Eh sì. In campagna la scuola non era molto amata, ci divertivamo di più nei campi. Non studiavo. E poi nella scuola fascista non mi trovavo: bisognava obbedire, ma io sono sempre stato un ribelle per natura».
Ribelle anche nella medicina?
«Mettere in discussione le regole è la regola della scienza. È la sua forza, altrimenti saremmo ancora all'età della pietra. Io l'ho fatto nel '69, quando proposi la mia tecnica di asportazione del tumore al seno, contro la concezione dominante per la quale toglievi tutto. Ma a me non garbava di togliere tutti quei seni, ero già un po' femminista. Così ho combattuto».
Se le regole vanno trasgredite, qual è il confine?
«La scientificità del metodo, la ricerca sperimentale sull'uomo, le prove che sia utile. Invece gli imbroglioni sfruttano chi non ha più speranza di guarire».
La disperazione.
«D'altra parte se un paziente mi dice: Non ce la faccio più, posso andare a Lourdes?, io so che non serve, ma che mantiene viva la speranza».
E lei ha paura della morte?
«No. Sono saltato su una mina a 18 anni, sono sopravvissuto e da allora ogni giorno è rubato al destino che voleva farmi morire. Mi è rimasta una scheggia di quella mina, negli Stati Uniti fa suonare i metal detector».
Ha conosciuto tante donne, tante pazienti. E anche Margaret Thatcher.
«Era la fine degli anni Ottanta, avevo creato Europa contro il cancro e giravamo per i vari Paesi, per convincere i governi a costruire strutture anticancro. Così incontrai anche lei».
Come è andata?
«Ci offrì il tè, ce lo versò lei personalmente, e poi disse: Sì, va bene, la lotta contro il fumo, ma io conosco tanti anziani che fumano e stanno bene, per esempio Churchill col suo sigaro...».
Tentò di convincerla?
«Io le spiegai che parlavamo di fattori di rischio.
Comunque fu allora che scoprii quello che era stato il segreto di Churchill per arrivare a 90 anni: Ho fumato tutta la vita, ho bevuto e soprattutto non ho mai fatto esercizio fisico. Mi fa sempre ridere... Vede, con tutte le nostre battaglie, nella scienza non c'è niente di assoluto».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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