Ora i capitali italiani fanno dietrofront Dogane a caccia di «spalloni» di ritorno

nostro inviato a Como

Valico autostradale di Como-Brogeda. Direzione Svizzera-Italia. I finanzieri fermano un’utilitaria per un controllo di routine. A bordo due anziani ultrasettantenni, marito e moglie della Brianza. Sembrano una coppia di insospettabili nonni di rientro da una gita a Lugano. «Qualcosa da dichiarare?», chiedono i baschi verdi. «Nulla», risponde con voce tremante l’uomo al volante, il volto teso e l’agitazione galoppante. I finanzieri si insospettiscono: «Accosti», intimano. Al termine dell’ispezione la coppia viene trovata in possesso di 220mila euro, in banconote da 500, occultati in due panciere che i nonni indossavano. Sulla provenienza del denaro i due coniugi tacciono. Così come non ha fiatato, alla dogana ferroviaria della stazione di Como-Chiasso, sul treno Zurigo-Milano, il professionista milanese che portava una fasciatura toracica elastica foderata di contanti per un totale di 800mila euro. Dietro un silenzio tombale si è chiuso anche il motociclista quarantasettenne che, fermato in auto alla frontiera, tentava di riportate in Italia 142mila euro celati nella suola delle scarpe.
Questi sono tre scatti in una galleria di casi di sequestri di valuta smascherati, negli ultimi mesi, dalla Guardia di finanza di Como ma griffati da una novità: gli euro rientravano in Italia, anziché uscire. Questa retromarcia del cash, dal paradiso fiscale della Svizzera all’Italia, è un fenomeno in rapida accelerazione, come conferma dal suo ufficio in riva al Lario, il colonnello Rodolfo Mecarelli. Per le Fiamme gialle, che presidiano la trincea di minuscoli e grandi valichi lungo la linea di confine rossocrociato, la caccia agli «spalloni di valuta» è una missione quotidiana. Combattono una guerra per bloccare i contrabbandieri di capitali in fuga, ingaggiando una lotta con coloro che hanno preso il posto degli estinti «spalloni» di sigarette degli Sessanta e Settanta. Ma, se allora si caricavano sulle spalle zaini colmi di stecche di «bionde», gli «spalloni» di oggi fanno entrare e uscire capitali dalla Confederazione elvetica. E non solo danée, ma anche oro, diamanti e titoli di credito. Un fiume di denaro non dichiarato alla dogana frutto di guadagni in «nero» e di evasione fiscale di artigiani, professionisti, commercianti, piccoli-medi-grandi imprenditori di Lombardia, Veneto, Emilia e Piemonte. Sono loro che, negli ultimi quarant’anni, hanno esportato un tesoro sudato in bottega nel paradiso fiscale più vicino e più comodo, perché appena al di là del giardino di casa.
Ma adesso che trema lo storico segreto bancario elvetico, che il mito della riservatezza rossocrociata scricchiola, il popolo delle partite Iva e dei risparmiatori duri e puri trema. In Canton Ticino, da alcuni mesi, risuona l’allarme. Dagli uffici delle banche di Lugano rivelano che prima hanno cominciato a tempestare di telefonate i loro consulenti e anche gli esperti delle finanziarie. Ma, nonostante le rassicurazioni e le garanzie, il giorno dopo la notizia dell’apertura della Ubs alle richieste di Washington, il sismografo degli italiani che hanno parcheggiato i soldi in Svizzera trascrive uno stato d’animo angosciato. Non si fidano più. Temono che prima o poi crolli il paracadute del riserbo che custodisce i caveau ticinesi. E allora semaforo verde al viaggio inverso. Su e giù da Lugano per riprendersi i propri soldi, portarseli a casa. Oppure dirottarli, in un secondo momento, verso altri paradisi fiscali, dove i loro nomi e i loro conti movimentino denaro senza lasciare alcuna traccia.
I finanzieri sono già in allerta. I controlli sono più serrati. Il risultato? Una crescita dei sequestri di valuta – due milioni 191mila euro da gennaio a fine luglio di quest’anno - non solo e non tanto in uscita, quanto più di ritorno in Italia, con una tendenza che appare già in aumento rispetto ai due milioni e 889mila euro sui quali la Finanza ha messo il sigillo in tutto il 2008. «Il dietrofront dei capitali c’è – sottolinea il comandante Mecarelli -. È un fenomeno che stiamo registrando. Ci sono una serie di casi che ultimamente abbiamo scoperto e che provano un transito di denaro contrario rispetto alla consuetudine».
Sulla marcia indietro dei capitali dalla Svizzera verso l’Italia motivata dalle scosse che stanno facendo tremare il segreto bancario elvetico, la parola d’ordine nella sede dell’Associazione bancaria ticinese a Lugano è basso profilo. «La decisione da parte del Consiglio federale di allentare il segreto bancario non significa rinunciare alla nostra segretezza», puntualizza il direttore Franco Citterio.


Anche se, per ovvie ragioni, è praticamente impossibile calcolare l’ammontare del tesoro blindato nei forzieri anonimi delle banche svizzere, ma si stima che questo immenso patrimonio oscilli attorno ai 250 miliardi. Un mare di denaro nascosto al Fisco che una schiera di contribuenti italiani sta rimpatriando.

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