Non è stato un plebiscito. Ma alla fine i sì hanno prevalso al referendum tra i 5.500 dipendenti della fabbrica Fiat di Mirafiori. Gli sconfitti sono dunque obbligati ad accettare la scommessa fatta dalla maggioranza e da Sergio Marchionne. E cioè più lavoro, meno furbizie e più quattrini. Il paradosso di questa vicenda è che un gesto di rigore di poco più di una metà degli operai Fiat potrà portare benefici anche a chi ha perso. Esattamente l’opposto delle liturgie degli anni ’70 e ’80, in cui la maggioranza degli operai - con la complicità dei sindacati - smontava pezzo per pezzo la competitività dell’industria italiana. Oggi sindacati e operai stanno faticosamente affrontando il percorso inverso: il patto consacrato dal referendum prevede più lavoro in cambio di più quattrini. Quello in onda fino a ieri si reggeva invece su un binomio folle: meno lavoro e salari nominalmente stabili. I conti alla fine si pagavano con la liretta che veniva periodicamente svalutata e con le casse dello Stato che ripianavano i buchi dei bilanci privati.
Ma di scommessa alla fine trattasi. E piuttosto ardita. Marchionne e i sindacati che lo hanno appoggiato (praticamente tutti a parte la Fiom) ritengono infatti che l’Italia possa continuare ad avere una leadership nella meccanica. Nei prossimi anni capiremo se ciò è vero. Ci vorrà del tempo per capire se costruire auto a Torino è ancora economicamente conveniente; se impiegare risorse umane a catene di montaggio dove si imbullonano autovetture è mestiere per occidentali. Ci auguriamo ovviamente che la scommessa sia stata ben ponderata.
Ma il referendum di Mirafiori insegna anche un’altra cosa. Le riforme non sono pasti gratis. Si pagano: cambiano le abitudini, i modi di lavoro, i rapporti di forza, il set di diritti e doveri acquisiti. E il riformismo che Marchionne ha imposto ai suoi operai, ha un debito con la componente sindacale che ha accettato la sfida. Con spirito analogo l’Italia ha bisogno di una profonda riforma della sua struttura del lavoro.
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