Giorni fa, a Rieti, ho visto in anteprima lintervista a un reduce della campagna di Russia, realizzata dai bravissimi studenti di una scuola media superiore. Angelo Blasetti, novantenne, ha unaria incredibilmente giovanile e serena, vista lesperienza che gli toccò vivere oltre 65 anni fa. Ne ha parlato quasi come fosse una cosa normale: era la guerra, sia pure combattuta in uno dei fronti più tragici, nel pieno dellinverno russo, anche con 40 gradi sottozero, la neve altissima e continua, gli attacchi provenienti da ogni lato durante una ritirata che somigliava a una rotta. Più di quando raccontava delle decine di migliaia di compagni morti, e della fatica di sopravvivere, ho visto un lampo di angoscia, nei suoi occhi, quando ha parlato delle decine di migliaia di cui non si è saputo più niente, dei «dispersi»: se fossero morti, prigionieri, o magari definitivamente trattenuti in Unione Sovietica, forse in Siberia.
Il Corpo di Spedizione Italiano in Russia (Csir), fu mandato sul fronte russo nel luglio del 41, composto da oltre 60mila uomini, schierati nellUcraina meridionale. Gli italiani avanzarono, con i tedeschi, fino alla sponda occidentale del fiume Mius. Intanto il contingente veniva rafforzato, finché nel luglio del 42 si costituì lArmata Italiana in Russia (Armir), in totale 230mila uomini, la maggior parte schierata in prima linea. Avevano 25mila quadrupedi, 22mila mezzi meccanici, 940 cannoni, 64 aerei. Uno sforzo immane, per gli «otto milioni di baionette» schierate sui fronti europei e africani. Ma la guerra sembrava vittoriosa.
Le truppe italiane protessero il fianco sinistro di quelle tedesche durante la battaglia di Stalingrado, poi furono schierate lungo il bacino del Don, per difendere dai contrattacchi sovietici una linea di 270 chilometri: un fronte troppo lungo, per di più in pieno inverno. I primi attacchi furono respinti, ma il 17 dicembre lArmata Rossa - grazie allimpiego di truppe corazzate - costrinse quasi tutte le forze italiane alla ritirata e le accerchiò. Lordine di ripiegare venne dato, con colpevole ritardo, soltanto il 17 gennaio 1943. Gli italiani avevano un vestiario e mezzi insufficienti: in quelle condizione i soldati - una quantità enorme - dovettero compiere una ritirata interminabile, attaccati da truppe regolari e da partigiani. Fu unepopea che durò fino a marzo, e di cui rimane lo straziante ricordo nel libro di Giulio Bedeschi Centomila gavette di ghiaccio.
Le perdite, fra morti e feriti, furono oltre la metà dellintero contingente. I prigionieri furono 70mila, di cui soltanto 10mila vennero rimpatriati fra il 1946 e il 1954, lasciando nei familiari la speranza che altri siano sopravvissuti, costretti a rimanere nellimmenso territorio sovietico: pur di pensarli vivi, cè chi spera che alcuni abbiano deciso di rimanere. Purtroppo è realistico pensare che oltre 50mila italiani siano morti di stenti durante il trasferimento forzato verso la prigionia, o nei campi di concentramento, dove vennero sottoposti a trattamenti disumani. Ai prigionieri fu negata, assieme ai diritti più elementari, anche la dignità di esseri umani. Se Centomila gavette di ghiaccio è il libro dei combattimenti e della ritirata, anche la storia dei prigionieri è raccontata in un libro drammatico, Io, prigioniero in Russia (LAutore Libri, Firenze, 2008), del giornalista romano Vincenzo Di Michele, figlio di Alfonso, mandato sul Don a ventanni, catturato, costretto a quattro anni di prigionia nei campi di concentramento siberiani e nei campi di lavoro del Kazakistan. E lui fu uno dei pochi, fortunati, a tornare.
Dopo la guerra furono vani i tentativi delle autorità italiane di avere notizie dei prigionieri, e numerose le polemiche sul mancato intervento di Palmiro Togliatti, membro importante dellInternazionale comunista. Solo dopo il 1989, caduto il comunismo, è stato possibile cominciare il rimpatrio delle salme, finora oltre 4mila.
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