Ora tutti corrono ad aiutarli ma fino a ieri nessuna pietà

Si muovono le banche, i Paesi, le star del cinema, le persone comuni. Ma Haiti stava morendo anche prima. Nell’indifferenza del mondo

Ora tutti corrono ad aiutarli ma fino a ieri nessuna pietà

La gara della solidarietà potrebbe diventare disciplina olimpica. Ne ha i requisiti. Viene praticata in tutto il mondo, sempre più spesso, articolata nelle diverse specialità: tsunami, alluvioni, terremoti. Quest’ultima gara per Haiti si avvia a diventare il punto più alto mai raggiunto: per livello di partecipanti, per quantità di risultati. Nel mezzo di una tragedia così grande, è consolante assistere al prodigarsi del mondo intero. Dalla più lontana scolaresca eschimese al più potente governo americano, siamo tutti sensibilizzati e impegnati. Oltre al numero pazzesco, indicibile, irreale dei cadaveri, a scuotere le coscienze e i sentimenti c’è l’aggravante più convincente di tutte: Haiti è l’angolo miserabile del pianeta Terra. Lo capisce anche il duro di cuore: la sventura si accanisce là dove meno ce n’è bisogno. In un certo senso, siamo partiti tutti alla scoperta della disperazione assoluta.

Leggendo le notizie di agenzia, si fatica ad aggiornare la cronaca di questa gara. Come un Telethon impazzito, il grande totalizzatore della solidarietà registra minuto dopo minuto le nuove adesioni. Staccano assegni tutte le star internazionali con le loro fondazioni, da Angiolina Jolie a Lance Armstrong. Raccolgono fondi i governi, le onlus, le banche. Ma anche le scuole, le parrocchie e i cral aziendali. Forza, ogni attimo è prezioso: Haiti manca di tutto, non possiamo lasciarlo solo.

Bello. Sì, molto bello. Però bisognerà pur dirlo, in un attimo di lucidità: Haiti era un Paese disperato e derelitto anche due giorni fa, prima del terremoto. Dove eravamo tutti quanti, fino a due giorni fa? Cosa dobbiamo concludere, guardandoci allo specchio: serve un cataclisma, per smuovere la sensibilità dei grandi poteri pubblici e delle piccole proprietà private?

Il discorso non ha la finalità di scatenare sempre un senso di colpa nel nostro animo, persino quando ci stiamo muovendo bene. Più che altro, dovrebbe servire a futura memoria. Per calibrare meglio il nostro senso del bene, declinato nelle sue forme più nobili di altruismo, pietà, misericordia.

Come ciclicamente il Santo Padre si ostina a ricordare dalla finestra su San Pietro, molte Haiti versano tra gli stenti nei diversi anfratti del mondo moderno. Fra queste, Haiti è statisticamente una delle più Haiti. Eppure, fino all’altro giorno, di Haiti e delle sue sciagure nessuno s’è mai dato una gran pena (si ricordano solo gli appoggi interessati a questo o quel regime nell’eterna lotta di potere). Lì da molto tempo vivono i veri ultimi della terra, ma nessuna gara della solidarietà è mai partita. La nostra solidarietà ha bisogno di una potente scossa, settimo grado della scala Richter, per presentarsi ai blocchi di partenza e partecipare alla gara.

C’è persino un errore di calcolo, cinico e finanziario, in questo atteggiamento. Come si dice in diverse situazioni: meglio prevenire. L’abbiamo verificato noi italiani giusto l’altro ieri, all’Aquila: qualche soldo speso bene prima avrebbe evitato molti lutti e tante spese dopo. Un poco di solidarietà in anticipo eviterebbe la fine del mondo poi. Lo spiegano benissimo i Bertolaso - altra categoria che senza scosse non ascoltiamo mai -: l’emergenza costa tantissimo, molto più di una prevenzione sensata. Centomila dollari dati ad Haiti prima del terremoto sarebbero serviti a costruire un edificio sicuro, centomila versati ora servono a comprare una ruspa per rimuovere i detriti.

Sembra di cercare sempre il pelo nell’uovo. Mi assumo la responsabilità del fastidio: sto cercando il pelo nell’uovo. Però diventa utile ribadire un paio di dati, già ampiamente noti prima dell’apocalisse. Haiti ha un reddito pro-capite di 1.200 dollari all’anno, cioè 3 dollari al giorno: davvero serve il terremoto per capire che hanno un disperato bisogno d’aiuto? E se questo dice ancora poco, riporto un altro numero: la mortalità infantile, ad Haiti, sta al 70-80 per mille. Benchè la percentuale possa risultare imprecisa nei decimali, resta la lugubre sostanza: un bambino su dieci non sopravvive al biberon.

Inevitabile, per quanto seccante, tornare alla domanda: dov’erano le raccolte di viveri e di medicinali, i ponti aerei e gli assegni di Hollywood, il ciglio umido dell’Onu e i concerti benefici delle rock-star? Dov’erano le non stop delle Cnn? Perché, prima del terromoto, Haiti non meritava che noi scattassimo in una grande gara della solidarietà? Anche se inconfessabile, la risposta può essere questa: un bambino morto sotto il muro crollato è insopportabile, perché la scena ci arriva nei salotti di casa con il suo carico di eccezionalità, mentre il 70 per mille dei bambini morti di fame e malattie non scuote, perché è la normalità.

Ma se davvero le nostre gare della solidarietà dipendono da questo, non sembra il caso di sentirci così campioni. È il segno che un certo genere di cataclisma, ugualmente devastante, lo stiamo vivendo in fondo anche noi, qui. Dentro.

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