Enrico Groppali
Tra i grandi spiriti del Novecento destinati a torturarsi senza mai trovar pace, August Strindberg occupa il primo posto in graduatoria. Mentre, tra i teatranti italiani del ventunesimo secolo, Massimo Castri, tra lo spleen e leterna scontentezza di sé, non ha rivali nellincessante riproporsi a testimone della crisi di quel mondo borghese di cui non riesce a disfarsi. Scarsamente interessato ai contemporanei, oggi il regista fiorentino dopo aver esplorato gli abissi di Pirandello e di Ibsen e aver sottoposto Goldoni a una spietata vivisezione, affronta finalmente il suo padre spirituale per eccellenza. Ossia il grande nordico che invano inseguì tra le storte dellalchimia, lattrazione per locculto e il tirannico andirivieni di compagne sempre diverse, il fantasma eternamente cangiante dellassoluto.
Castri ha cominciato la sua ricognizione del tempo perduto dei progenitori puntando tutto se stesso sul testo-base del suo autore: quel Padre su cui Strindberg impostò la tragedia dei sessi ai tempi in cui la genetica non poteva rassicurare il maschio sulla legittimità della sua discendenza. Dentro il contenitore blu-Matisse di Maurizio Balò, tra le urla roche e distanti degli ufficiali di servizio e luntuosa condiscendenza del cognato prete, Umberto Orsini allinizio si muove e agisce come lUomo difficile di Ronconi, tra secchi colpi di glottide che echeggiano come fucilate e imbarazzanti torsioni degli arti motorii, inibiti come e più del cervello a obbedire ai suoi ordini.
Per mutarsi al secondo e al terzo atto quando lo spettacolo, dopo un avvio stranamente scolastico, prende corpo scendendo negli abissi dellinconscio, in un bianco fragile guscio squassato dagli anni. Un catecumeno invecchiato senza accorgersene cui lattore, mai come ora sollecito a esaudire gli imperativi del regista, conferisce la straziante pietà dei martiri.
IL PADRE di Strindberg. Produzione: Arena del Sole e ERT. Regia di Massimo Castri, con Umberto Orsini. Bologna, fino al 7 novembre.
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