Cronaca locale

Ovadia: «Non mi sento il Woody Allen italiano»

L’artista presenta al Mazda «Goles», un recital tutto basato sulla Torah: comicità e canzoni si mescolano fino a formare un insieme organico

Andrea Indini

Il popolo ebraico crede che Mosè trascorra la sua vita ultraterrena in una palude nel continuo studio della Torah. E il Paradiso? Vi si avvicinerà solo nel momento in cui inizierà a capire quello che sta studiando. Così sia anche la vita: un lungo cammino, un infinito viaggio dove ognuno di noi diventa straniero di se stesso per potersi conoscere. Questo è Goles, l’ultimo spettacolo di Moni Ovadia, questa sera sul palcoscenico del Mazda Palace.
Qualche parola sulla serata...
«Si tratta di un recital di canzoni e musiche, uno spettacolo che si muove soprattutto attraverso la sua dimensione musicale al fine di riflettere e glorificare la condizione dell’esilio. Questa diventa un problema cruciale soprattutto nel nostro mondo dove i confini esplodono e si sciolgono. Si tratta di una condizione di smarrimento e perdita di sé fino ad acquisire una particolare sensibilità nei confronti di tutto ciò che ci circonda.»
Ma possiamo parlare di esilio anche per quelle persone che vivono tutta la vita nello stesso posto?
«Ognuno di noi dovrebbe approfondire il proprio Ulisse, anche chi non è esiliato nei fatti. Chi ha solo certezze, può solo rimanere fermo sulle proprie posizioni. L’esperienza del dubbio e l’abolizione delle certezze può solo portare a una conoscenza maggiore. L’identità ebraica viene fondata proprio sull’autoesilio di Abramo: l’inizio del cammino del monoteismo viene così a coincidere con l’uscita del popolo da una terra. Non è un caso che, in ebraico, la radice gher vale sia per straniero sia per risiedere. Proprio per questo chi vuole avere a che fare con l’ethos monoteista non può prescindere dall’essere straniero.»
Quindi non si devrebbe avere alcun legame con la propria terra?
«Assolutamente no. Non bisogna averlo in senso ideologico e nazionalistico. La Terra Promessa è di Dio, non del popolo. Nella tradizione ebraica, infatti, venivano azzerati i diritti terrieri e ridistribuiti i possedimenti in occasione del Giubileo. Voglio spiegare questo con lo spettacolo di questa sera: ogni uomo deve vincere le proprie paure e crescere. Ma per farlo, credo che il solo mezzo sia il viaggio: l’Ulisse di Dante incarna questa condizione.»
Però, Ulisse si perde, viene sopraffatto dal suo credere solo in se stesso...
«Questa è la lettura cristiana. Nella tradizione ebraica, invece, si può conoscere solo cercando e viaggiando. E l’esilio è il modo migliore per farlo. Goles è appunto questo: il recupero di gesti, tradizione, storia e storielle ebraiche, senza mai perdere di vista l’insegnamento della Torah da cui nasce la condizione interiore della libertà e della centralità dell’uomo.»
Da trent’anni porti in giro i tuoi spettacoli per far conoscere la musica dell’Est. Alcuni critici ti hanno definito il Woody Allen italiano: cosa vi accomuna?
«In realtà niente. Si tratta di un paragone comodo forgiato da alcuni giornalisti per avere uno spunto da cui partire. Ma niente di tutto questo. Tutti quelli che si occupano di umorismo ebraico, si accorgono di un comune esprit sulla vita che mira a sculacciare ogni forma di violenza.

Allen punta sulle nevrosi e gli smarrimenti, mentre io sull’interiorità e i valori sociali.»

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