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Padre Scalabrini L’Africa segreta di un missionario

Storia di un eroe dimenticato: partito dalla Lombardia ha vissuto rivoluzioni e golpe politici del continente nero. Sempre in difesa dei più deboli

Padre Scalabrini L’Africa segreta di un missionario

Fumava una Turmac. Don Beretta, il rettore, «pessimo educatore, ottimo amministratore», lo sospese per sette giorni. «Un giorno mi appioppò due ceffoni soltanto perché mi ero fermato a sbirciare, dalla finestra della classe, la lezione che lui stava tenendo. Non ho potuto mai perdonarlo, come quella volta che umiliò mia madre dopo la sospensione, la trattò con disprezzo, noi eravamo gente povera».
Amava la Carmen. E nascondeva le lettere d’amore nei cassetti della sacrestia. «Il parroco le scoprì e le portò a mia madre». Giovannino saliva sul tetto della chiesa, scalava anche il campanile della parrocchia di Sant’Abbondio per dar la caccia ai fringuelli, c’era la guerra, c’era la fame, c’erano la nebbia e il freddo di Limido Comasco e qualcosa bisognava portare sulla tavola di casa. Mamma Maria teneva a bada la brigata e pregava, una santa donna si usa dire, le lettere d’amore di Giovannino per la Carmen l’avevano sorpresa: «Ma tutto il paese conosceva la nostra storia». Papà Tranquillo ce l’aveva con i preti che non gli avevano pagato i lavori di restauro della chiesa, batteva con il martello sul ferro del cavallo, il mestiere di maniscalco e di fabbro serviva a dare dignità agli Scalabrini, le tonache dovevano restare alla larga.
Quanti chilometri dividono Limido Comasco da Kampala? Perché Andreotti protestò con il governo di Amin Dada? Dove stava in quei giorni Paolo VI? Che cosa è la paura davanti a un mitra che minaccia la tua vita?
Riavvolgere la bobina, riflettere, andare per ordine e con calma. Innanzitutto è più facile sapere dove sta Kampala, alla voce Uganda, che quel Limido lì, smarrito sull’atlante geografico.
Per questo motivo Giovanni Scalabrini un giorno di giugno, il ventiquattro dell’anno 1963, ricevette una cartolina precetto. Aveva ventinove anni, la fede in Cristo stava dentro di lui, forte, sicura, decisa. Era accaduto tutto per caso, quando, dopo Turmac e fringuelli, un giorno benedetto, dopo la predica in paese, un prete chiese se qualcuno avesse voglia di accompagnarlo a Venegono, in casa dei missionari. Giovannino mollò le nuvole di tabacco galeotto e andò a Venegono, si ritrovò lungo un corridoio tappezzato nelle pareti di fotografie in bianco e nero, erano i missionari che lavorano in Africa, alcuni erano stati ammazzati, altri sorridevano in un alveare di bambini. «Ne rimasi affascinato, tornai a casa ma continuavo a pensare a quelle immagini. Mio padre aveva avviato un’attività tessile a Como, sperava di coinvolgermi. Non mi interessava nulla di quel lavoro tra le sete, sognavo e frequentavo l’oratorio, aiutavo il parroco nelle faccende da sacrestano, poi la partita di pallone con gli amici, quelli della caccia ai passeri, quelli con i quali avevo dato fuoco a un covone di sterpi e sotto c’erano le patate, messe lì di nascosto dal proprietario del terreno, finirono arrostite. Quando venni ordinato sacerdote lui venne a trovarmi, commosso, aveva dimenticato la grigliata».
Giovanni Scalabrini ha il viso di un professore universitario eppure si è fermato alla terza media, i capelli sono di argento chiaro, le lenti si poggiano leggere sul naso, rose le gote e il maglione blu mi ricorda la sua missione, il sorriso si apre improvviso mentre i pensieri di domani e quelli di ieri gli frullano in testa. Padre John lo chiamano in Uganda, un po’ di Inghilterra l’aveva conosciuta dopo Venegono, era andato a Londra per imparare la lingua prima del grande salto in Africa: «Un salto nel buio, come il primo giorno in seminario a Brescia, senza i miei libri, i miei quaderni, così aveva voluto mio padre che era contrario. Ci furono momenti in cui pensai di tornare a casa ma un superiore mi scosse. “Fa minga i stupid”. Non feci lo stupido. Decisi di insistere. L’Africa era ancora un sogno. Un giorno, sull’autobus, incontrai Domaziano Sala, aveva piedi enormi, era alto, grosso, era un prete africano, della diocesi di Gulu. Fu un segno del destino, il mio». Il destino. Dopo gli studi a Londra bisognava chiudere la valigia per il viaggio della vita. A Limido Comasco la festa è grande, c’è tutto il paese a salutare Giovannino, si mangia, si beve, si parte, con la Giulietta, via verso Roma. «Un freddo cane. Mi venne il febbrone, tonsille arrossate. I quindici confratelli andarono a far visita a Paolo VI, io “’l stupid” a letto, papà era contentissimo. Finisce che i confratelli partono e io perdo l’aereo. Devo aspettare due settimane, poi il volo dell’East Africa Air per Entebbe mi porta, dopo sei ore memorabili, nel mio paradiso. Una sola valigia, nemmeno una lira in tasca. Aspettai due ore nell’aeroporto prima che spuntasse padre Giuliani con il mio permesso di entrata». Giovannino, padre Giovanni entrò, finalmente. Quarantatré anni di missione, di fede, di fame, di sacrificio, di sofferenza: «La paura? Mai, quella vera dico. I mitra dei soldati davanti a me, il sangue dei feriti, ho sparato anche io per difendere bambini e uomini inermi. Sono finito in prigione». L’Uganda di Amin Dada, storia feroce di un pezzo d’Africa: «Due volte andai a pranzo da lui, c’era anche Bokassa, imperatore del Centro d’Africa, aveva una moglie cattolica. Amin era ignorante ma culturalmente istintivo, nutriva un forte senso di inferiorità verso i bianchi ma mi trattò con grande rispetto porgendomi le sue grandi mani in segno di saluto. Decise di espellermi dal paese, ero pericoloso. Mi portarono in uno sotterraneo per evitare che il mio arresto divenisse un fatto pubblico. Potete immaginare la stazione di polizia di Kampala. Un altro prigioniero mi sussurrò: padre non tocchi nulla di quello che le daranno da mangiare e da bere, cercheranno di farla fuori giorno per giorno, altri li hanno già ammazzati. Piangevo, pregavo, chiedevo al Padre eterno che cosa volesse da me. Una delle guardie mi portò un materassino perché non mi coricassi a terra». E Roma? E il Vaticano? Padre John scuote il capo, imporpora le gote: «Mai, nemmeno una voce, un sostegno. Mi liberarono ma senza restituirmi la camicia, la cintura, le calze. Mi imbarcarono su un aereo e tornai a Roma: Ma cosa ha mai combinato per avere tutto questo trattamento? Fu la domanda di Giulio Andreotti che volle vedermi, lui sì. Dicevano che fossi un collaboratore dei ribelli, li sostenevo. Andreotti fu rigido: niente più aiuti all’Uganda se io non fossi tornato a Kampala». Una settimana di attesa poi Amin Dada con un telegramma chiese scusa a padre John e all’Italia. «Prima di partire mi volli togliere una soddisfazione.

Andai a trovare Carlo Rauber, il capo dell’Accademia diplomatica del Vaticano dove si studia per diventare nunzio» (dice quasi infervorandosi); aiutato dalle organizzazioni del volontariato, dall’amore e dalla perizia di Fabio e di Dado, di Emanuela e di Agostino, di Chiara e di Elena, generosi nel fare non nel dire, professionisti, laici, avvocati, medici, ingegneri, una piccola Italia per riscaldare un uomo grande, che abita lontano ma è vicinissimo a tutti. E che ogni tanto ripensa al fumo di una Turmac e agli occhi della Carmen. Attorno a padre John si può tornare a vivere.

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