Un Paese che merita il podio

Un Paese che merita il podio

Tony Damascelli

nostro inviato a Torino

Stavolta è finita. L’Olimpiade di Torino è già un ricordo, caldo, come quella torcia alta una vita che si è spenta malinconicamente nel cielo buio, laggiù vicino alla torre Maratona, simbolo di uno stadio dimenticato, arrugginito e che è tornato a vivere grazie ai Giochi. Sedici giorni dopo, restano i coriandoli di quest’ultima festa, carnevale vero. Ieri, oggi, la favola dei nostri azzurri diventata realtà di due colori e valori, d’oro e di bronzo, undici medaglie, l’inno suonato cinque volte, per riscaldare un Paese che fa di tutto per essere stonato, per dimenticarsi, litigando nei cortili e che si ritrova finalmente unito davanti alla sofferenza di un atleta e alla sua gioia.
Il frammento della premiazione della 50 chilometri di fondo è stato un colpo al cuore: Manuela Di Centa ha messo la medaglia d’oro al collo di suo fratello Giorgio, un abbraccio lungo come quella corsa sulla neve. Quando la bambina, la stessa di quell’altra notte bella del 10 febbraio, ha intonato Fratelli d’Italia, con la sua voce piccola in un teatro grande, rivolta a trentacinquemila spettatori, a due miliardi di altri telespettatori in ogni dove di questo mondo, quando quella bambina, dunque, ha preso a cantare l’Inno di Mameli, allora i Giochi sono diventati altro, non più la corsa, la danza, lo slalom, il salto, la discesa. Magia dello sport che riesce da sempre a buttare nel cestino dei rifiuti l’odio, trasformandolo in rivalità e poi nella festa della pace. Questo è stata anche l’Olimpiade di Torino, preceduta dalle paure di atti terroristici, accompagnata da un’ombra fastidiosa di pericoli subdoli. È andata bene, sì, non è successo nulla di quello che temevamo, che qualche spirito vigliacco aveva messo in circuito e che le autorità competenti tenevano sulle scrivanie. I ribelli che avevano ostacolato il viaggio della torcia, sono rimasti spenti loro, mozziconi di rivoluzionari, dimenticati.
Hanno lavorato sodo le forze di polizia, insultate altrove dai beceri tifosi del calcio ma qui finalmente rispettate; i volontari sono stati tanto generosi quanto disinformati, non è colpa loro. Il comitato organizzatore, che sta nell’acronimo Toroc, ha dovuto lottare con e contro parenti e serpenti, diviso anche al proprio interno fra chi ha saputo svolgere il proprio lavoro in modo professionale (Gattino) è chi ha preferito badare esclusivamente alla copertina (Christillin), la città ha risposto come forse non immaginava nemmeno il suo sindaco, Chiamparino, uomo di rare parole e di buone azioni, spettacolare sventolatore del drappo olimpico prima del passaggio a Sam Sullivan, costretto alla carrozzina, sindaco di Vancouver.
La tribuna dello stadio Olimpico ha offerto passerella torinese con tutti gli Elkann e gli Agnelli, al fianco loro Luca Cordero di Montezemolo, e il protocollo istituzionale, accanto a Rogge, presidente del Cio, Petrucci, capo del Coni, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi (accolto dai fischi dei soliti noti che si devono essere di colpo ricordati di essere in uno stadio di calcio e dunque di avere qualcuno da insultare): Berlusconi era accompagnato dal sottosegretario alla presidenza Gianni Letta, a mettere la firma su questo prodotto davvero made in Italy, esposto a duecento nazioni, collegate televisivamente, quaranta in più rispetto a Salt Lake City. Castellani, con l’ordine d’oro olimpico al collo, ha ringraziato governo, istituzioni, volontari: «Ce l’abbiamo fatta», è spuntato il solito indiano metropolitano che ha urlato «the passion is...» prima di venire trasportato nelle sedi opportune. Rogge ha offerto la vittoria alla città, al Piemonte, all’Italia («Mai visti Giochi così belli. Bravi, avete vinto la sfida»). Quando le giubbe rosse hanno consegnato al picchetto della Guardia di finanza la bandiera canadese, Torino ha capito che la storia era finita davvero, anche se ora toccherà ai grandissimi atleti delle paraolimpiadi. Finale ipnotico, pioggia di petali d’argento, fontane pirotecniche.

Ogni spettatore aveva ricevuto due maschere di carnevale, un viso d’angelo e uno da diavolo, giochi di bimbi per fare festa di grandi. Il braciere era ormai spento, attorno è rimasta soltanto la notte. Angeli e diavoli nascondevano le lacrime.
Tony Damascelli

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