È un «apartheid sociale, politico e giudiziario» quello che vivono i cristiani in Pakistan. Un debole 2 per cento su 170 milioni di abitanti per lo più musulmano, che di fronte agli attacchi dell’estremismo islamico «è costretto a difendersi da solo».
La polizia è complice delle frange estremiste e le autorità non perseguono i colpevoli di questo «silenzioso stillicidio». Peter Jacob, 48 anni, è il segretario nazionale della Commissione Giustizia e Pace (Ncjp) della Chiesa cattolica pakistana. Organo fondato nel 1985, la Ncjp fornisce assistenza legale alle vittime di discriminazioni religiose. In questi giorni è in prima linea negli aiuti ai superstiti degli ultimi pogrom anti-cristiani a Korian e Gojra, provincia di Punjab.
Signor Jacob, cosa è successo in Punjab esattamente?
«Sono andati in scena due differenti attacchi premeditati, aizzati dal fanatismo islamico con il pretesto della blasfemia: il primo, il 30 luglio a Korian, dove fortunatamente non vi sono state vittime; nel secondo, il 1º agosto a Gojra, le persone invece non erano preparate e in sette sono stati bruciati vivi. Ci sono 50 feriti e 120 case distrutte».
Perché parla di attacco premeditato?
«Abbiamo scoperto che gli estremisti hanno usato un combustibile speciale che rendeva le fiamme molto difficili da spegnere; l’obiettivo chiaro era di compiere una vera e propria strage. La stessa benzina è stata utilizzata in passato per incendiare il villaggio di Shanti Nagar, nel 1997, e quello di Sangla Hill, nel 2005».
Allora si tratta di una vera e propria campagna di persecuzione?
«Direi di sì. Gojra non è un incidente isolato, ma un episodio di un fenomeno più vasto. Solo da gennaio a oggi si sono verificati almeno 15 pogrom anti-cristiani: in marzo una donna è morta a Gujranwala nell’attacco a una chiesa; in aprile un assalto armato al villaggio di Taiser Town, Karachi, ha ucciso un ragazzo, mentre in giugno a Kasur sono state distrutte 57 abitazioni».
Qual è la situazione a Gojra oggi?
«Nella zona è tornata da poco la calma, grazie al massiccio intervento dell’esercito. Ma la gente è traumatizzata. Proprio stamattina (ieri) ho incontrato alcune famiglie per stabilire gli aiuti materiali e economici che stiamo organizzando. Erano disperati».
Perché il fenomeno non si riesce ad arginare?
«Negligenza e connivenza con gli estremisti. La polizia ha ignorato gli allarmi che avevamo lanciato prima dell’attacco; mentre le autorità politiche e giudiziarie continuano a lasciare impuniti i colpevoli. Il Pakistan è a un bivio storico: deve scegliere presto, se percorrere la strada del progresso e diventare un Paese democratico e multiculturale o scegliere di cristallizzarsi in una società settaria».
Cosa dovrebbe fare il governo?
«Quello provinciale, ordinare lo sradicamento delle formazioni estremiste islamiche e cancellare i messaggi di odio contro le minoranze religiose che si leggono tutti i giorni su volantini e cartelloni per le strade e sui muri. È risaputo che i militanti hanno le loro basi in Punjab e quindi sono pericolosi anche per il resto del Paese. Islamabad, invece, dovrebbe valutare seriamente l’abrogazione della legge sulla blasfemia, di cui sono vittime prima di tutto gli stessi musulmani».
Cosa è la legge sulla blasfemia?
«Si tratta dell'articolo 295 del codice penale pakistano. Il primo riguarda le offese al Corano, punibili con l'ergastolo, il secondo stabilisce la morte o il carcere a vita per chi offende il nome di Maometto. La norma è sfruttata spesso per dirimere questioni personali».
Qual è la prospettiva per la libertà religiosa in Pakistan?
«Dopo anni di regime militare, ora la società civile è stanca di un Paese sempre in bilico tra guerra e pace e buona parte di essa, anche tra i musulmani, chiede uguaglianza per le minoranze. Questa è l’unica forza che va incoraggiata e che può determinare un cambiamento reale».
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