Cultura e Spettacoli

PALAZZOLO ACREIDE Sebastiano, santo futurista

In agosto nel paese siciliano una grande festa che richiama l’esplosivo dinamismo di F.T. Marinetti

PALAZZOLO ACREIDE Sebastiano, santo futurista

Dovete immaginare un cielo così blu da sembrare il fondo di una piscina piastrellata, una piazza che sale leggermente verso una grande scalinata e, in cima alla scalinata, una delle facciate più belle di Sicilia, equilibrio impressionante tra fasto e teatralità da un lato e sobrietà e misura dall’altro. Se lo sguardo corre alla chiesa è perché la stessa conca della piazza guarda lassù. Anche a essere da soli, è inevitabile che quella e solo quella sia la direzione dello sguardo.
Sono, dunque, le tredici in punto. Il termometro dell’automobile segnava trentasette gradi, ma adesso devono essere di più. Con l’aprirsi della porta della chiesa è come se si aprisse una gran bocca, tanto è insistente il rosso dei drappi all’interno. Dalla bocca prima esce, sostando giusto sul labbro dell’orifizio, la reliquia del santo, trasportata in una pesantissima teca che richiede lo sforzo di diversi portatori; poi, ancora più pesante, ecco apparire, tra le grida di giubilo - o forse sarebbe meglio dire di trionfo - dei ragazzini (tutti rigorosamente di sesso maschile), la statua del Santo trafitto, dalle cui ferite esce un sangue di smalto.
Eccola: è la «sciuta», l’uscita, è il momento atteso da tutti. La tensione nervosa è tale da contagiare anche noi, che ce ne stiamo - quali turisti «culturali», quali turisti e basta - nel parterre di questo teatro.
Una signora milanese con due figlie adolescenti, che finora ha parlato solo della qualità della pasticceria di Palazzolo Acreide («da Corsino, da Corsino, credetemi, è la numero uno»), all’urlo dei ragazzini scoppia a piangere, imitata immediatamente dalle figlie vestite da sciantosette, come si dice oggi per dire puttanelle. Vedo altri occhi lucidi, occhi di turisti, occhi di gente di passaggio. Ma guai ad abbassare le fotocamere, guai a riporre i telefonini, perché con la «sciuta», nello spazio che intercorre tra il grido dei ragazzi lassù e le lacrime delle donne quaggiù - uno, due secondi -, l’intera facciata della chiesa, che era stata farcita di candelotti, esplode.
Milioni di strisce di carta multicolori, della lunghezza di un paio di metri e della larghezza di cinque, sei centimetri, vengono proiettate nell’aria. La loro quantità nasconde persino il sole e il cielo, tanto che in men che non si dica tutti noi ci ritroviamo coperti di strisce, che il vento sparge su tutta la città. E i fili elettrici, da un istante all’altro, si sono trasformati in campionari di strisce pendenti, rosse e verdi e gialle e celesti.
Intanto, hanno cominciato a esplodere anche i fuochi d’artificio, che sono la cosa più notturna del mondo e qui si sprecano al cospetto del cielo più chiaro. A questa visione spaesante mi prende un’inquietudine che ben conosco: è quella specie di ira, o di dispetto, che sempre in me precede un vero atto di conoscenza. Devo capire, non gliela darò vinta tanto facilmente.
Il mio amico Ric mi mostra una striscia di carta e mi fa notare che sull’estremità, incollato, c’è un chiodo. Ne raccatto un’altra da terra, e c’è un chiodo anche lì. Per fortuna a pochi passi c’è l’avvocato, lo storico locale, lui ci spiegherà.
E infatti ci spiega. Per giorni e giorni, dice, i ragazzini delle scuole elementari di Palazzolo sono stati impegnati a fissare questi chiodi alle strisce per rendere lineare la parabola del loro volo. «In orario di scuola?» domando. «Eh... » risponde. Poi, dopo una pausa, ammirato dai fuochi che sembrano non smettere mai, luce dentro luce, lui, che vede queste cose da mezzo secolo sospettando qualcosa si rivolge di nuovo a me.
«Zang tumb-tumb. Le pare?». «Che c’entra Marinetti?». «Non mi dica che non le viene in mente Marinetti. Tutta quella novità che si agitava in aria... ih ih ih... non era che un condensato di antichissima Italia. Lei è intellettuale vero? Mi permetta: c’è più mondo contadino in Marinetti che in Pasolini». Evviva l’avvocato. Che non tira in ballo l’etnografia, i riti, Lévi-Strauss. Non gl’interessa, a lui, il rito del pane, lui il pane se lo magna, e me ne offre uno intero perché la moglie l’ha messo a stecchetto. Ha settantacinque anni, è alto un metro e sessantanove e pesa centoventicinque chili. Ed è bellissimo.
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Poi la processione ha inizio sotto gli archi mobili - di legno - che hanno trasformato una delle vie del paese in una sorta di via trionfale, e qui perlopiù si dividono i turisti dai locali, che seguono le sacre immagini, mentre il turista si accontenta di riporre il telefonino o di riguardarsi le immagini nel display della fotocamera, mentre la moglie è a caccia di bottigliette d’acqua.
La processione durerà tutta notte, e Ric è intenzionato a rimanere fino al momento in cui la statua di san Sebastiano rientrerà, all’alba, in chiesa - cerimonia della della «velata», cui assistono, anche qui, solo uomini, spesso in lacrime - per restarci un altro anno. Decidiamo di seguire un po’ la processione e un po’ di andarcene a visitare questo paese strepitoso (come tanti altri: da Noto a Modica, da Ibla a Scicli, a Piazza Armerina... ), nella certezza che incroceremo più e più volte l’immagine di san Sebastiano.
In questa festa, su dieci cose, otto devono essere illegali o giù di lì. E anche le due che restano, quelle più strettamente religiose, non trovano sempre il consenso dei preti. Mi dicono, per esempio, che in certe altre città il vescovo ha proibito una parte di questi riti dicendo che si tratta di cose pagane. Il popolo, a quanto sembra, si è rivoltato, ma non c’è stato niente da fare. L’ortodossia ha fatto passi da gigante, altro che controriforma (da cui, se mai, questo fasto ebbe i natali).
Cose pagane. E allora? Dove sta il problema? Quando mai il cristianesimo ha avuto paura del paganesimo? Il paganesimo è una cosa importante, Dante Alighieri invoca la Musa, invoca il «buon Appollo», ed è difficile camminare per Siracusa e dintorni senza percepire la presenza attuale di questi dèi (e l’Etna è sempre lì...).
Guardo la statua di san Sebastiano e all’improvviso un fiammifero si accende nella mia testa piena di teorie. Quel sangue sontuoso che sgorga dalle sue ferite, quel sangue che mette sete, che mette voglia di leccare, che promette un gusto senza pari, quel sangue che è sangue di morte ma insieme di vita e di abbondanza, e che è sangue del sangue di Cristo: quello è il segno del dolore e, insieme, del vero benessere.
L’antico rito dell’abbondanza, rito senza dubbio pagano, è diventato cristiano non per un principio di occupazione di spazi, ma perché il cristianesimo, lungi dal cancellare la religiosità pagana, la abbraccia e la fa sua. Perché l’abbondanza di pane è una benedizione di cui l’anima dell’uomo semplice è grata a Dio, e Dio ha donato il suo sangue, e con lui i santi e i martiri: sangue che è vino, miele, sangue vivificatore.
E i fuochi d’artificio in piena luce sono la geniale metafora di tutto questo: luce che si aggiunge a luce, grazia che si aggiunge a grazia, abbondanza sopra abbondanza, verità su verità. È lo stesso genius che ha creato queste meravigliose chiese. Il cristianesimo non si pone mai in alternativa al cuore umano. I preti (compresi i «preti» laici, che sono tantissimi), molto spesso sì.
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È sera, io ho troppo caldo e vado a dormire. Ric, invece, vuole resistere fino alla «velata». Ric è uno degli uomini più moderni e spregiudicati (nel senso positivo della parola) che io conosca, è un famoso giornalista, un intellettuale, da giovane ha studiato molto le feste e i riti popolari, e ora che si occupa di tutt’altro mantiene per queste cose una grande passione.
Lo ritrovo alle nove, al bar. Capisco, guardandolo, che deve ancora andare a dormire. Ha gli occhi rossi, gli chiedo se è per la stanchezza, lui risponde con franchezza: no, è perché ho pianto. È stato in chiesa, ha visto la statua rientrare, circondata da ragazzi e uomini adulti, madidi di sudore, col cellulare spento nel taschino e il gel nei capelli, ha visto questi uomini invocare il santo e la Madonna con grida e pianti, non ha capito una parola ma ha capito l’urlo di quei cuori, e non ha potuto trattenersi dal piangere a sua volta.
Gli antichi e i padri della Chiesa si chiedevano: che cos’è l’uomo? Noi, come ho già detto, sembriamo disinteressati a questo problema. «Bisogna correre, andare!» sbeffeggiava Gadda. Ma così facendo lasciamo sprofondare il mondo sotto i nostri piedi, proprio come i ghiacciai che si sciolgono e sprofondano nel mare e non esistono più.


(15. Continua)

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