La nenia sembra non finire mai. È così da un giorno, e più. Sono loro, la sua gente, gli invisible man di Ralph Eldo Ellison, quelli che lui ha rinnegato. Stanno lì, davanti all’Apollo Theater, al numero 253 della centoventicinquesima strada di Harlem. È dove tutto è iniziato. È quel teatro che ha fatto conoscere Ella Fitzgerald, James Brown, Gladys Knight, Lauryn Hill, Sarah Vaughan. È qui che sono diventati grandi i Jackson Five. Michael allora aveva poco più di sei anni, un cespuglio di capelli crespi, il naso largo e improvvisava quei passi di danza che solo la natura ti può regalare. Nessuna finzione, niente trucchi o ritocchi. Michael è stato un bambino triste, sfruttato e picchiato, che provava a volare. Il popolo nero di Harlem non la smette più di cantare. È una musica dolce e loro si muovono lenti, sotto le luci azzurre di strani platani senza foglie.
È New York, questa, e le musiche parlano, raccontano storie, quella di Michael Jackson è un paradosso, come se questo bambino perduto attirasse nella sua orbita tutte le contraddizioni di un’era ibrida, incerta, dove il confine tra il vero e il falso, l’umano e l’artificiale è sempre in bilico. Michael era tutto questo. Era una star di plastica, che ha soffocato tutto il talento, cancellando ogni traccia della sua identità. Michael Jackson è un Peter Pan che ha cercato in tutti i modi di non invecchiare. E non ci è riuscito. Era il suo incubo. Ogni volta guardandosi allo specchio vedeva i pirati. Vedeva la faccia di Peter invecchiata male. Vedeva Capitan Uncino. E allora via con un altro bisturi, con la pelle come una cicatrice e il fegato avvelenato dalle medicine. Tutto per fermare il tempo, interrompere quel maledetto ticchettio, cacciare il mondo dai suoi occhi, mummificando il passato e chiudersi nell’isola che non c’è, quella Neverland dove solo i bambini perduti possono sopravvivere, quel parco giochi con qualche incubo. E per il mondo Jacko era diventato un Peter Pan pedofilo, la stessa accusa che macchiò la vita di James Mattew Barrie, l’autore delle storie di Kensington, un altro mezzo elfo, uno scherzo della natura.
La gente nera davanti all’Apollo non smette di cantare. Quasi viene voglia di dire perché. Michael li ha cancellati, riscrivendo se stesso. Lui, con quel naso contronatura, lui asettico, lui post-umano, lui che ha costruito un muro tra la sua faccia e Harlem. Questa lunga canzone è un paradosso. Era più facile maledirlo, scrollare le spalle, farsi il segno della croce e lasciarlo alla morte. Che c’entra Jacko con Harlem? Che c’entra con il popolo nero? E invece piangono. Il cuore del ragazzo nero che voleva essere bianco smette di battere e il silenzio arriva fino a Washington, dentro le stanze della Casa Bianca, dove vive una famiglia nera. Ed è la prima volta che questo accade.
La notizia passa sul volto di Obama e scivola nell’orto di Michelle, con le sue braccia nude da mamie che non rinnegano nulla, così orgogliosa di essere nera nel sangue, nella storia, nella terra, nelle strade di Harlem. Il re del pop è la negazione di tutto questo. È solo una delle tante icone disegnate da Andy Warhol, qualcosa di effimero, senza radici, una macchia di colore su una tela, una stella inorganica, come la luce di un neon. La profezia del vecchio predicatore nero si è realizzata. Ora gli invisibili hanno un volto, un presidente. Eppure piangono un volto senza più radici, uno che ha scritto e fatto cantare a tutto il firmamento We are the world, ma è vissuto con la paura di sporcarsi le mani. L’uomo che ha sposato la figlia di Elvis Presley, un matrimonio tra non identità, finito presto e male. La figlia del re bianco che cantava le canzoni dei neri e il re nero che voleva essere bianco. Il tentativo di incrociare il dna del pop, ma non ha funzionato. Le stelle rarefatte si possono clonare. Non partorire.
Era il 1982 e lui danzava davanti a un compagnia di zombie. Le note di Thriller erano i passi della sua vita. C’era qualcosa di quello che sarebbe arrivato dopo.
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