Parmenide a colloquio con Amleto

«Essere o non essere, questo è il problema». In questa battuta di Amleto, Shakespeare riassume la questione ultima, cioè originaria e fondante di tutto il teatro, dalla sua nascita come rito, nella tragedia greca, fino a noi, ai corpi che cadono e si infossano nella scena di Beckett. Amleto diviene il personaggio per antonomasia, perché i suoi dilemmi riguardano la sostanza stessa della nostra realtà, la verità del mondo.
Anche nelle espressioni minime o minimali della nostra realtà quotidiana la questione si ripropone, spesso declassata dal grado di supremo rovello a quello di inquietudine: la medicina e in genere l’approccio «olistico» alla realtà, pur con le inevitabili semplificazioni che accompagnano ogni fenomeno di moda, per quanto serio, rivelano un bisogno di quella radice su cui si fonda l’aggettivo «olistico», la parola greca oùlos, «intero». Anche nelle manifestazioni marginali della nostra quotidiana esistenza noi riveliamo la necessità del tutto, di una realtà piena in ogni parte, non caduca, frantumata.
Chi fissò in forma incancellabile la questione dell’essere nacque a Elea, nella Magna Grecia, nei pressi di Paestum, poi ribattezzata Velia, una città leggendaria scoperta nel 1962 dall’archeologo Mario Napoli, che accanto alla magnifica Porta Rosa portò alla luce vestigia che ci consentono di conoscere l’esatta scrittura del nome del più famoso figlio di Elea, Parmenide. Illustre cittadino, aristocratico, facoltoso, politico onesto, onorato, fu fisico, medico, sacerdote e legislatore: pare che le sue norme facessero di Elea, comunità di greci fuggiti dalla madrepatria durante l’avanzata dei Persiani, una città esemplare per civiltà e armonia, quell’armonia che è alla base della sua visione della realtà come una totalità piena e perfetta.
Parmenide, di cui ora esce il leggendario Poema sulla natura, magistralmente tradotto e curato da Vincenzo Guarracino (Medusa, pagg. 118, euro 13), è uno dei maggiori filosofi di ogni tempo, e in un certo senso il primo filosofo. La sua affermazione «infatti lo stesso è pensare e anche essere» opera una rivoluzione nella cultura greca del VI secolo. I filosofi erano poeti epici, che cantavano la nascita e la realtà del mondo, la sua natura innervata sugli elementi: terra, acqua, aria, fuoco. Con Parmenide troviamo una realtà non fisica che precede quella fisica della terra e del fuoco: l’essere. L’essere è la realtà prima, assoluta che comprende tutte le altre, appunto, nel tutto. Insomma la filosofia non è più puramente cosmogonia, cioè interpretazione intuitiva e poetica della nascita dell’universo, ma anche interrogazione sulla realtà da parte di una «mente logica».
L’aspetto straordinario del pensiero di Parmenide, però, è che tale approccio logico alla realtà ha luogo in un poema, un poema in magnifici esametri: il proemio ci mostra l’autore in un viaggio fantastico, a bordo di un carro trainato da cavalle e guidato dalle figlie del Sole, che scortano il poeta fino alla soglia della Porta della Notte e del Giorno, dove lo attende la dea Dike, la Giustizia, che detterà le sue parole di conoscenza.

Il filosofo logico, quindi, è anche e ancora un poeta, un illuminato, la filosofia non può uscire dalla sfera del sacro e della veggenza poetica. Nei 160 versi rimasti del migliaio originario, tutto si svela e brilla, poema in cui conoscenza e visione coincidono, oggettiva manifestazione della totalità parmenidea dell’essere, appunto, un «intero».

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