Al partigiano Moranino killer di partigiani non si nega una via

Caro Granzotto, i Di Pietro, i Borrelli e altre belle gioie manettare o perfide accampano giustificazioni assurde e puerili per osteggiare la proposta del sindaco Moratti di dedicare una via o un parco a Bettino Craxi. Sostengono che è morto da condannato in contumacia. Un «bandito», aggiungono. Tempo fa, passeggiando per Giulianova (Teramo) mi imbattei, horribile dictu, nella via Francesco Moranino. In «arte» Gemisto. Non ricordo se sulla targa vi fosse una didascalia con la dicitura «partigiano assassino di altri partigiani. Condannato all’ergastolo». Quella via c’è ancora, me lo dice Google Map.
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Le querule polemiche sull’attribuzione di una via milanese a Bettino Craxi continuano, caro Zamberletti. Tutti in fila, ammodino, per far sfoggio di perbenismo politicamente corretto e scommetto che il sindaco di Giulianova, Francesco Mastromauro, o il suo assessore alla cultura (e già segretario della Sezione Togliatti), Luciano Crescentini sono fra quei soldatini della vigilanza democratica che hanno da ridire sul proposito del sindaco Letizia Moratti. Ma che nonostante le molte sollecitazioni a rimuoverla, seguitano a mantenere nella loro città una via dedicata a quel macellaio di Francesco Moranino, comandante e commissario politico della Brigata Garibaldi, nell’aprile del 1956 condannato (in contumacia, essendo fuggito in Cecoslovacchia) all’ergastolo per l’omicidio - eseguito il 26 novembre del ’44 in località Portula, nelle Alpi biellesi - di Emanuele Strassera, di cinque partigiani e due delle loro mogli (procedimento e sentenza che l’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani, subito liquidò come «montatura giudiziaria che ha come obiettivo la Resistenza nel suo complesso», tanto per non smentirsi. Montatura o non montatura, si legge, nella sentenza: «Perfino la scelta degli esecutori dell’eccidio venne fatta tra i più delinquenti e sanguinari della formazione. Avvenuta la fucilazione, essi si buttarono sulle vittime depredandole di quanto avevano indosso. Nel percorso di ritorno si fermarono a banchettare in un’osteria e per l’impresa compiuta ricevettero in premio del denaro»).
A proposito di ipocrisia, ma lo sa, caro Zamberletti, che fra i nomi dei «caduti per la Libertà» incisi nel ’49 nei due archi laterali del ponte Monumentale di Genova compare, fra tanti gloriosi partigiani, anche quello di Emanuele Strassera (anche se storpiato in Straserra)? Come se lo avessero accoppato i fascisti o le Ss. E non quel delinquente di Moranino. Compare anche, perché all’ipocrisia resistenziale non c’è mai fine, il carabiniere Carmine Scotti. Lo stesso che a Bargagli, attirato con l’inganno dai partigiani rossi, da questi fu denudato, torturato, seviziato e infine ucciso. I sei eroi della Resistenza arrestati per l’omicidio furono poi sveltamente inclusi fra i combattenti di una Brigata di «Giustizia e Libertà» in modo da far loro godere dei benefici dalla leggina che prevedeva l’indulto per i reati comuni commessi fino al 18 giugno 1946 da «militanti di formazioni combattenti».

Essendosi riaperta l’inchiesta - c’è chi non rinuncia ad avere giustizia - quarant’anni dopo i fatti, nell’estate del 1984, i sei ex partigiani finirono di nuovo in carcere, uscendone però dopo un paio di settimane grazie ai buoni uffici dell’Anpi, sempre lei, che volle circoscrivere il ruolo avuto dal sestetto, responsabile sì della cattura di Carmine Scotti (che in quanto carabiniere apparteneva alla Guardia nazionale repubblicana, ergo da far fuori), ma senza avere colpe per la sua morte e le precedenti sevizie. In sostanza, Carmine Scotti si sarebbe torturato e messo a morte da solo.

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