da Milano
Entri nel catino coreografico del nuovo Partito democratico e senti subito che qualcosa è cambiato. È tutto diverso, tutto nuovo: c’è anche qualcosa di familiare nell’aria, ma lì per lì non capisci cosa, è un dettaglio fuori contesto. Poi ci ripensi e metti a fuoco: con tutta quella luce verde che si irradia dagli schermi, che filtra dagli apparati scenografici e che emana dai faretti spot, fra prati artificiali e tavoli trasparenti non c’è dubbio: pare di essere a un congresso di medicina o davanti all’insegna di una farmacia notturna.
Così la «croce verde» della sanitaria democratica veltroniana sul set della Costituente rappresenta un piccolo terremoto semantico e iconoclastico: niente leader sul podio, niente documenti congressuali, niente votazioni, inni o lacrime, niente deleghe, solo un paio di voti acclamatori, conteggiati senza scrutatori: «Approvato». La politica del Novecento qui stasera è finita. Se un diessino un anno fa si fosse affacciato qui, avrebbe denunciato con sdegno la nascita di un nuovo orribile «partito di plastica», avrebbe riso del verde Padania, si sarebbe fatto beffe delle sofisticate regie para-berlusconiane. Ora, l’ex diessino e l’ex margheritino se ne stanno buoni in platea e applaudono come fossero una claque tv. Qui nel catino verde di Rho, lasciano il segno fanciulline 18enni come Viola De Nardi, che sale sul palco per dire: «A noi giovani della storia della Dc e del Pci non ce ne frega nulla. Sono racconti che ci piace ascoltare in sezione, ma che non ci dicono più niente» (altro che il «credo» di Silvio). La Dc e il Pci qui sono preistoria. Il nome di Ciriaco De Mita, viene fischiato. Gli ex popolari sono allibiti. I dalemiani fanno gli occhi a palla. Viola è bionda, carina, emozionata, ma anche molto smagata. Veltroni la guarda estasiato (e poi la citerà tre volte). Qui Piero Fassino è un fondatore senza diritto di parola, freme in prima fila, batte le palpebre come l’imitazione di Neri Marcorè, muove le labbra senza emettere suono, come se fosse privato di parola da un sortilegio. Per lui solo rituali apprezzamenti da chi ha la fortuna di parlare («Grazie Piero per la tua generosità...»), roba da toccarsi. Mentre Viola, appena scesa dal palco racconta che l’hanno chiamata la sera prima dall’ufficio stampa delle primarie per dirle: «Ti va di parlare?» (casting estemporaneo che nemmeno Gianni Boncompagni, fantastico). Poi mentre Massimo D’Alema arriccia i baffi, tra un intervento e l’altro di Veltroni, si alternano oratori che paiono scelti con sorteggio ateniese. Il sindaco di Bari Michele Emiliano, per esempio si presenta in Lacoste nera con sopra le bretelle. Non ha ancora appoggiato i fogli sul podio, già perde le staffe: «Nessuno mi ascolta? Vi saluto e me ne vado!». Riesce appena a fare la mossa che incrocia lo sguardo di Veltroni. Il leader fa un gesto imperioso: Emiliano torna indietro e parla, come se nulla fosse. Poi Luca Comodo, garbato professorino di Ipsos: i ministri non hanno parola, ma il sondaggista illustra per venti minuti tabelle fantascientifiche da cui si evince che il Pd è già al 28% e presto sarà al 38%. Non lo ascolta nessuno, anche lui è un marziano verde. Veltroni annuncia: «Non ci saranno tessere». Anche una vecchia volpe come Ermente Realacci stupisce quando grida: «Avete letto l’intervista dove Ligabue chiede un ricambio di classi dirigenti?» (molti pensano al pittore, poi realizzano che citava il rocker). Parla Maria Falcone. E poi Michele Salvati: dovrebbe essere il nuovo guru del Pd, ma viene fischiato perché saluta i «compagni e le compagne». Si vendica con una battutaccia: «E come dovremmo dire? Ciao democratico fa ridere!». L’ex sfidante, Piergiorgio Gawrosky, al microfono grilleggia: «La Casta esiste! La violenza della politica ha sequestrato la libertà dei cittadini!». Mario Adinolfi denuncia le leggi su internet dell’Unione: «Sono liberticide».
E così capisci che la scenografia progettata da Roberto Malfatto - detto «il Panseca veltroniano» - è più di un allestimento, quasi una rasoiata nella storia. È un salto di identità paragonabile alla piramide che l’architetto di Bettino Craxi ideò per il suo leader: niente tribune, niente simboli, niente colori, nè rosso, nè bianco. Niente slogan, nemmeno una parola, un segno, un logo. Solo un podietto oratorio, una muraglia di licheni verdi, un tavolo di plexiglass per i tre garanti delle primarie (pare la postazione del «signor no» nei quiz di Mike Buongiorno). Entri nella platea verde, costellata di schermi al plasma (venti!) che trasmettono video ripetitivi con cartoline illustrate delle città italiane, ti fermi a contemplare incantato i tre grandi maxischermi da cinque metri che trasmettono ciclicamente immagini di madri solari e pupi sorridenti, provi a interpretare quella sigla «Pd» ormai ridotta a segno anodino: sì, la politica qui non c’è più. Con tutto quel verde e quelle facce, se guardi da lontano, il palco pare il depliant di un fondo pensione San Paolo-Intesa.
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