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Un passaporto per i bambini mai nati

Dopo una lunga battaglia, un gruppo di mamme americane ottiene il riconoscimento dei "missing angels", i feti abortiti per cause naturali. Ora dodici Stati rilasceranno certificati di nascita: la prova della loro esistenza

Un passaporto per i bambini mai nati

Joanne Cacciatore vive in Arizona, bene e con passione perché ama la vita. Per qualche mese, l’anno scorso, ha avuto la gioia di viverne due, di vite. Era incinta, sapeva tutto del bambino che stava per nascere, si informava minutamente, teneva un diario della sua vita «dentro». Doveva essere una femmina, doveva chiamarsi Cheyenne, come la tribù indiana. I nomi eccentrici sono frequenti da quelle parti. Venne il momento del parto. Lei racconta di averne vissuto «tutto il dolore». Lo descriveva nei suoi appunti, che dovevano far parte di un libro di memorie della primissima infanzia di Cheyenne. Al posto d’onore doveva andarci il certificato di nascita.

Poi qualcosa andò storto e quando riemerse dalle doglie e le consegnarono quel documento, dovette accorgersi che era un certificato di morte. Chiese come e dove era morta la bambina. Le risposero, nella freddezza dettagliata del linguaggio burocratico, che era morta dentro di lei. Insomma, non ce l’aveva fatta. Joanne non aveva avuto una bambina ma un feto e i feti non nascono. Nella sua cocciuta disperazione la mamma scoprì di non essere sola.

Attraverso Internet si mise in contatto con le vittime di casi analoghi. Con Sari Edber, una giovane donna di Los Angeles, dentro cui era cresciuto un figlio maschio, Jacob, e anche lei aveva registrato tutte le radiografie, le diagnosi, i documenti dell’esistenza «sotterranea». Teneva anche lei un album, come quelli di memorie di chi ha vissuto e aveva aspettato il certificato di nascita, da mettere a un diverso posto d’onore, nell’ultima invece che nella prima pagina dell’album rilegato. O con Perry-Lynn Moffit, che dirige un ufficio apposito nell’ambito del Consiglio nazionale delle donne ebree a New York.
Insieme, hanno messo in piedi una Foundation che si chiama «Missing Angels», «Angeli dispersi», come i Mia, «Missing in action», i soldati che non tornano alla guerra né vivi né morti. Per alcuni il nome contiene anche un riferimento religioso: chi non ha visto la Terra abita ora in un cherubico cielo, ma tutti si riconoscono in un appello anche martellante ai legislatori. Chiedono che anche i non nati abbiano un riconoscimento di essere stati vivi, un certificato, una specie di «passaporto». «Non chiamateli feti, non minimizzate la nostra perdita e il nostro dolore. Sono bambini. Sono belli. Sono solo mancanti, dispersi». Una mezza dozzina di Stati, primo fra tutti l’Arizona di Joanna Cacciatore, hanno già dato ascolto a preghiere e pressioni e consegnano adesso, a richiesta, «certificati di nascita», retroattivi.

Un «movimento» tipicamente americano nella sua angoscia, nelle sue motivazioni surreali, nella sua concretezza. Ma una volta tanto l’America non è arrivata prima. Nel lontano Giappone - e dove altro? - esistono da anni i cimiteri dei non nati. Piccoli cippi tombali, uguali in tutto anche perché non hanno fatto in tempo ad avere un nome o un volto, raggruppati in giardini che non recano croci né altri simboli religiosi ma pietre, sassi, in memoria di coloro che il lungo viaggio dal non essere al non essere l’hanno percorso, invece che per la strada della vita, per la scorciatoia dell'aborto. Le mamme che non hanno potuto o non hanno voluto esserlo depongono accanto alle rocce artificiali, nei non compleanni, giocattoli, biberon, fiori finti, radioline con la cuffia, dolciumi sontuosamente e accuratamente incartati. Oppure accendono «mulini di preghiera», buddhisti, che compiono un rito di pietà anche per conto di chi non è mai stato; oppure dei walkman con dentro le musiche che si immaginano preferite. Gli auricolari abbracciano il cippo, cantano una ninna nanna a chi non ha bisogno di dormire perché non si è mai svegliato. Cippi, pietre, sassi sono di plastica, materia finta per finti monumenti a finti morti. Ed è poi giusto che sia così, perché la plastica è inerte e neutrale, la più plasmabile dall’immaginazione, senza le resistenze che le cose della natura sempre oppongono.

La natura non capisce, cambia e si nutre del mutamento e per questo le cose non possono essere eterne, mentre lo sono ad ogni momento che passa nella nostra mente immortale, nei «certificati» che portiamo dentro, nel nostro kabuki perenne.

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