da Washington
Bush e Petraeus, parole e musica. Ci sono due modi per dire la stessa cosa, soprattutto nel mondo dei politici; ma c'è anche un modo di dire, con parole simili, due cose differenti. È il caso del ritratto della situazione in Irak tracciato dal comandante militare e dall'ambasciatore Usa a Bagdad e «riassunto» meno di ventiquattro ore dopo dal presidente. Formalmente quest'ultimo ha annunciato che accoglie le conclusioni, e dunque le richieste su esse basate, del generale Petraeus: sospendere il ritiro delle truppe americane dall'Irak a partire dal 31 luglio. Da qui ad allora torneranno a casa, come previsto, cinque brigate da combattimento, 25mila uomini in tutto, che teoricamente riportano il livello della presenza militare alle dimensioni di prima della surge. Dopo però pausa; fino a che i militari non considereranno cambiata la situazione. Potrebbero caldeggiare altri ritiri oppure chiedere rinforzi. La «pausa», comunque, non riguarda le operazioni militari, che nel frattempo continueranno.
La decisione era attesa. Quello che conta sono le sue motivazioni, ed è qui che le parole di Bush divergono da quelle di Petraeus. Per anni l'uomo della Casa Bianca ha detto no alle richieste di portare a casa tutti o una parte dei soldati americani dall'Irak. Lo ha fatto con due motivazioni alternate: «Non possiamo andarcene adesso che le cose vanno male», oppure «Non possiamo andarcene proprio adesso che le cose vanno bene». Le cose descritte da Petraeus non vanno né bene né male. O meglio, alcune vanno bene e altre male. Il bilancio è, nelle sue stesse parole, un miscuglio. I progressi ci sono stati, anche importanti, ma sono, dice Petraeus, «fragili e reversibili». Lo conferma l'ambasciatore Crocker, che usa il termine «sostanziali ma a rischio». È un giudizio militare, o politico-militare. Da Bush è venuta l'interpretazione politica, che è diversa e, come era inevitabile, tiene conto dell'opinione pubblica, della situazione in Congresso e soprattutto della campagna elettorale in corso. Una distinzione significativa, per esempio, è il ruolo di Al Qaida, che non è più dominante come è stato dottrina ufficiale degli Stati Uniti nell'ultimo anno o due, ma che per Bush è ancora primario mentre per il suo comandante sul campo è ormai secondario. Il pericolo numero uno oggi sono i non specificati «reparti speciali», che sarebbero armati e addestrati dall'Iran. Il principale avversario, dunque, non è più sunnita ma sciita.
Un bilancio misto, che non mette in imbarazzo tanto Bush ma il suo delfino John McCain, che si era espresso in questi mesi in termini incomparabilmente più ottimistici. Potrebbe avere dei guai elettorali, ma forse per lui stanno arrivando i rinforzi. Che si chiamano Condoleezza Rice.
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