Per dirla con Corrado Guzzanti in versione Quelo: «La risposta è dentro di te. E, però, è sbagliata». Perché la risposta, all’universo mondo che pone la scomoda domanda, i candidati alla guida del Pd ce l’avrebbero pure, e sarebbe un liberatorio, convinto, solenne: è finita, con Antonio Di Pietro non vogliamo mai più avere a che fare. Però non si può dire. Perché poi chi li recupera i voti che Tonino già così, da alleato, si porta via sottraendoli ai democratici? E chi se la assume la responsabilità di sentirsi rinfacciare, come da tormentone dipietrista, che «gli unici veri antiberlusconiani siamo noi»? Così, silenzio.
Chiedi a Dario Franceschini e lui ti risponde che le alleanze mica sono un tema di oggi, ne riparliamo nel 2012. Speri in Pierluigi Bersani e invece quello ti attacca il bottone sulla necessità di allearsi sempre e comunque ma mai che dicesse con chi. Guardi Ignazio Marino e lui si gira di là: ovvio che serva allearsi, dice, sennò mica si vince, ma se con Udc o Idv «lo vedremo fra quattro anni». Solo che il problema è qui e ora, non fosse altro che l’intero arco costituzionale, Pd compreso, fa pressing. La situazione da grave si è fatta seria soprattutto dopo l’ennesimo affronto a Giorgio Napolitano, col «no» all’appello per un «clima più civile fra governo e opposizione». Spiacente ma non ci sto, ha risposto Di Pietro. Immediata condanna con parole di riprovazione dal Pd? Nì. I democratici hanno giudicato saggio l’auspicio del capo dello Stato, senza però mettere in forse l’alleanza con l’ex pm.
Passi che a Daniele Capezzone il portavoce del Pdl i vertici del Pd replichino con uno stizzito: guarda in casa tua, quando dice: «Mi permetto di porre una domanda semplice a Franceschini, Bersani e Marino: c’è qualcuno di voi che, in caso di successo della propria candidatura, sarebbe pronto a rompere l’alleanza con Idv?». Passi Capezzone, ma qui il cappio si fa sempre più stretto. Tonino stesso ha inforcato il silenzio come l’ennesima clava contro l’ambiguità democrat. Era il 23 giugno scorso e lui diceva: «Il Pd deve decidere cosa vuole fare da grande. Con noi sono mesi che non si fanno sentire, non sappiamo con chi parlare. Noi non stiamo ad aspettare all’ultimo momento. Il Pd sta con un piede in una scarpa, e cioè noi, e uno in un’altra, cioè l’Udc. Ma tra poco rimarrà senza piede e senza scarpa». Eh già, perché fra centristi e giustizialisti bisogna per forza scegliere, ed è un bel problema, visto che le anime del Pd non trovano l’accordo.
Così, ieri toccava ascoltare un Felice Belisario capogruppo Idv al Senato mentre incalzava: «Da Franceschini, Bersani e Marino finora non abbiamo sentito una sola parola sulle alleanze future, ci dicano se hanno intenzione di aprire un confronto con noi». E oggi tocca registrare l’ennesimo lamento di Marco Follini, che sul Riformista analizza così l’autocandidatura di Beppe Grillo alle primarie: colpa dell’ «innaturale alleanza con Idv. Se ora di punto in bianco spunta Grillo, altro non è che l’ennesima testa di un’idra populista dalle cui spire non siamo riusciti a liberarci». Riassunto: il mandante di Grillo è Di Pietro, la colpa è del Pd.
E i candidati? Franceschini rinviò la questione ab eterno già prima del voto. Era la fine di aprile, Massimo D’Alema aveva appena bocciato «l’asse privilegiato» con l’ex pm, e il segretario pro tempore replicava: «Quello delle alleanze è un dibattito non attuale, perché si faranno nel 2012». Da allora, mai una parola netta. Tantomeno il 24 giugno della candidatura via web, quando s’è ben guardato dal rispondere: «Vanno costruite nuove alleanze per battere la destra ma anche, poi, per governare». Mah. Stessa solfa con Bersani, che pure ha polemizzato con chi ha pensato che «vocazione maggioritaria» volesse dire non avere alleanze: «Bisogna ripensare una strategia istituzionale che preveda anche un sistema di alleanze tra soggetti diversi». Ecco. «Soggetti diversi» quali? Boh. Negli ultimi giorni, gli sguardi dei dipietristi si sono rivolti verso Ignazio Marino. Uno che ha accostato gli stupri di Roma alla questione morale del Pd avrà ben il coraggio di dire qualcosa, no? Macché: ve lo dico fra quattro anni.
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