Pd, le primarie inutili sono un business milionario

Nel 2005 vinse Romano Prodi. Nel 2007 toccò a Walter Veltroni. Siamo al 2009 e il popolo del centrosinistra, non ancora stanco di farsi del male, torna a votare per le primarie arrovellandosi tra Dario Franceschini, Pierluigi Bersani e Ignazio Marino. Il partito democratico ha preso l’abitudine, ogni due anni rimette in piedi il carrozzone elettorale, seggi, scrutatori, orari dalle 7 alle 20, quasi fossero elezioni vere. Ma le differenze ci sono. L’età dei votanti, per esempio: per il nuovo segretario del Pd possono esprimersi anche i sedicenni. O la nazionalità: alle urne rosse è consentito l’accesso anche agli stranieri, cittadini comunitari residenti in Italia ed extracomunitari dotati di permesso di soggiorno. I clandestini no, quelli non li vogliono.
E poi c’è una differenza più radicale, anzi «la» differenza. Evviva la differenza, come una volta scandivano le femministe. Una differenza fatta di moneta sonante. Due euro a scheda. I democratici fanno pagare per votare. No money no party, inteso come partito. Non è una novità, anzi è una costante. Quattro anni or sono, quando prevalse la faccia pacioccona di Prodi, erano cinque gli euro da sborsare, diecimila vecchie lire, forse in omaggio al premier che traghettò l’Italia verso la nuova valuta. Due anni fa Veltroni impose un taglio drastico, un euro e basta, svolta pauperistica. Forse pensava agli africani conosciuti durante il viaggio in cui credette che Dio fosse malato, forse era convinto che bastasse uno slogan americano, «I care», «m’interessa», per richiamare i voti a frotte.
Adesso gli euro sono due. Raddoppiati in due anni e in tempi di crisi, altro che aggiornamento Istat del costo della vita, quello è una cosuccia da Cgil. Ma le cose nel Pd funzionano così: o scuci la moneta oppure non sei abile a scegliere il tuo rappresentante. Il dettaglio non è da poco. Alle precedenti primarie fu roba da Tafazzi, con rispetto parlando: gli elettori pagarono per un voto già deciso. Perfino Gad Lerner su Vanity Fair ha ammesso che l’esito era scontato. Le primarie furono una passerella, una trovata mediatica per ottenere spazi televisivi, e soprattutto un sistema sicuro per fare cassa. Eleggi un leader senza rivali, in due anni lo rimandi a casa, organizzi nuove primarie a pagamento e il gioco è fatto.
Stavolta i giochi non sono fatti, dice Lerner e ripetono tutti in casa Pd. I pretendenti sono tre, si fanno la guerra, competono all’ultima scheda senza esclusione di colpi. E dunque si augurano una larga partecipazione per questo fenomeno di «cittadinanza attiva». In realtà, le cose stanno come ha riconosciuto pochi giorni fa Franceschini, segretario in carica e probabile uscente. «Lavorerò per una straordinaria partecipazione», ha detto: e si capisce bene il perché. «L’unico avversario possibile è colui che piccona la ditta», cioè non Bersani o Marino ma il Pdl. «Gli altri sono tutti amici e compagni. Chiunque sarà eletto avrà bisogno del sostegno leale degli altri. Se vincerò io, le prime due persone che chiamerò a collaborare saranno Bersani per le sue competenze economiche e Marino per le sue competenze scientifiche». Gli altri due non possono dire altrettanto per mancanza di competenze franceschiniane.
Chiaro? Chi vince chiede il sostegno degli sconfitti e avanti come se nulla fosse; questo o quello per me pari sono perché i tre sono intercambiabili. Le primarie non avranno nessuna utilità sostanziale per le scelte politiche, se non (così si mormora sottobanco tra i corridoi del potere democratico) decretare uno sconfitto che abbia come premio di consolazione il posto di governatore dell’Emilia Romagna, finito il regno del ravennate Vasco Errani. Bersani è di Piacenza, Franceschini di Ferrara. Solo Marino rientrerà nei ranghi dai quali ha cercato invano di uscire.
Bisogna dire che, come canta Vasco Rossi, anche in casa Pd c’è chi dice no. Per esempio, la presidente della provincia dell’Aquila Stefania Pezzopane ieri sera al «Chiambretti Night» ha proposto non di votare gratis, ma di devolvere i denari alla sua regione: «Dirigenti, dateci quei soldi, ci servono per fare un sacco di cose».

Marino pare d’accordo a devolvere all’Abruzzo non l’intero incasso ma metà, gli altri due no. «Pecunia non olet», dicevano i latini: il denaro non puzza. Venghino, siori democratici, a eleggere il segretario. E a raddrizzare i conti del partito.

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