Peake, quando al fantasy non serviva un «Avatar»

Peake, quando al fantasy non serviva un «Avatar»

Nonostante sia ormai asservita alla tecnica, la fantasia resta l’effetto speciale più efficace e sorprendente. Parliamo della fantasia nuda, adolescente, vergine, quella che si nutre di fiabe e racconti tradizionali, smarrita in un bosco di misteri, l’unico luogo in cui sa, inconsciamente, di poter ritrovare la strada maestra, il filo del discorso...
È la fantasia assente nell’Avatar di James Cameron, tanto per non far nomi, il kolossal più prossimo a un videogioco che a una cattedrale gotica, e in cui bagliori e ombre sono i figli (in provetta) di una luce fredda e di un buio computerizzato, non del giorno e della notte, del sole e della luna. È la fantasia, al contrario, presente nella saga di Gormenghast, che negli anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso (il secolo scorso, sembra ieri ed è ancora domani...) popolò la mente fervida di Mervyn Peake, lo scrittore e artista inglese figlio dei missionari Ernest Cromwell Peake e Amanda Elizabeth Powell, nato in Cina, a Kuling, nel 1911 e morto in Inghilterra nel ’68.
Che cos’è Gormenghast? Con il traballante senno del poi post-moderno, potremmo definirlo un «non luogo»: come un centro commerciale semideserto alle otto di mattina, come una città durante il ponte di Pasqua... Un vuoto che si può riempire, e puntualmente si riempie, di presenze oniriche, grottesche, caricaturali. Dell’infinito e labirintico regno-maniero di Gormenghast, Titus Groan, cioè Tito de’ Lamenti, è il settantasettesimo conte. È o era? Bella domanda, alla quale è in fondo piacevole non trovare risposta anche dopo la terza puntata della sua odissea allegorica, ora finalmente proposta da Adelphi (Via da Gormenghast, pagg. 330, euro 19, traduzione di Roberto Serrai) dopo le prime due.
Perché qui Tito, spinto dalla giovanile voglia di emanciparsi, di tagliare il cordone ombelicale che lo lega alle mura immemoriali (aggettivo ricorrente nel lessico peakeano, perfetto per affrancare fatti e pensieri dalla dittatura del tempo), non è un bamboccione alla Frodo Baggins, né tantomeno un saputello prestidigitatore alla Harry Potter. Lui, essendo un vero eroe, non cerca la gloria, bensì l’altro se stesso che gli urge dentro. Per dirla tutta, occorre mettere in conto anche i bollori carnali del ventenne. Che infatti troveranno modo di placarsi nell’abbraccio con Giuna, un’amante matura ma molto bella e, soprattutto, molto innamorata.
Insomma, se i primi due «atti» della recita (Tito di Gormenghast e Gormenghast) erano una serie di scene girate «in interno», questa volta il Nostro, dopo la morte del padre Sepulcrio e passando sopra al monito che sa di profezia della madre Gertrude («Non esiste un altrove. Non farai che girare in tondo, Tito de’ Lamenti. Non esiste strada, non esiste sentiero che alla fine non ti riporterà a casa. Tutto conduce a Gormenghast»), esce alla ricerca di una nuova dimensione. Errabondo e già un po’ pentito della scelta ardita, trova nel gigantesco Musotorto una guida spirituale e materiale politicamente scorretta e per questo simpatica. «Una regola - gli dice - non vale niente finché non la si infrange. La vita non vale niente se non ha la morte alle calcagna».
Naturalmente loro, Tito e Musotorto, sono i buoni, e naturalmente i cattivi trascinano il ragazzo, accusato di vagabondaggio, danneggiamento e violazione di domicilio, in tribunale. Ma l’ingiustizia non riuscirà a fare il proprio corso. Appena assaggiata la galera, l’autoesiliato Tito troverà una via di fuga nel sottosuolo, anzi, nel Sottofiume, catacombale dimensione dove una comunità di bizzarri personaggi, fra i quali spiccano Cancrello, Frombolo e Sbrego, tira a campare in attesa di un’impossibile resurrezione.
Ma non è questa la libertà, pensa l’esule. Scampato a una, anzi a due prigioni, non voglio certo marcire in questa. E allora, dopo una breve permanenza in purgatorio, gambe in spalla verso un ipotetico paradiso. Tuttavia il potere, simboleggiato da una coppia di loschi figuri con gli elmetti che hanno in dotazione qualcosa di simile a un telefono cellulare («Intorno al collo avevano una scatoletta, appesa a un filo di metallo. Che cos’era? Forse stavano ricevendo messaggi da un lontano quartier generale?»), non molla la presa. E la protezione di Giuna non basta più, quando si staglia sull’orizzonte narrativo La Casa Nera, dove Ziita (terza figura femminile dopo la dark lady principale e Rosanera, anch’essa invaghitasi dell’acerbo rubacuori), respinta da Tito, mette in scena una tremenda vendetta.
L’eroe è ora completamente allo sbando, avendo perso in precedenza il pezzo di selce del Torrione di Gormenghast, una sorta di carta d’identità che certifica l’esistenza del suo regno. E poi Ziita è figlia dello scienziato-boss dell’inquietante fabbrica, nonché responsabile della distruzione dello zoo di Musotorto. Impossibile scegliersi nemici peggiori...
Seguire la prosa avvolgente di Peake è come passare un pomeriggio al luna park del fantasy. Le strane morfologie di cose e persone nascono da metafore sullo stile delle kenningar norrene, caratteri e caratteristi sono dei freaks circensi. Viviamo in un’atmosfera fluttuante fra Il meraviglioso mago di Oz e le eteree figurine chagalliane, con una cifra quasi disneyana da Libro della giungla.

Ma, a ben guardare, Tito ha per noi qualcosa di molto famigliare. È un Pinocchio in carne e ossa, al quale la digressione nell’universo parallelo della fiaba regala l’illusione che si possa essere artefici del proprio destino.

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