PENNE SPEZZATE

Quando c’era Céline. Quando c’era Proust. Quando c’era Svevo. Quando c’era Malaparte. Quando c’era Gadda. Dove siete? E tuttavia se andiamo a leggere cosa scrivevano i suddetti di editori e critici erano incazzati neri. Céline voleva andare alla Gallimard con una pistola, Proust si lamentava che Gaston investisse più sul Baricco dell’epoca che sulla Recherche, Svevo si autostampava, come Nietzsche, come perfino il primo Moravia con i soldi di papà. Tuttavia la letteratura italiana è davvero «senza identità», come si è chiesto, in un intervento saggio e nostalgico, Ferruccio Parazzoli?
Forse che sì forse che no, perché io trovo anche retorico addossare agli scrittori italiani la loro mancanza di ambizione e di talento. Gli editori pubblicano paccottiglia minimalista, intimista, favolismo per adulti, narrativa young-adult, thrillerini impegnati senza arte né parte? In parte è fisiologico. Un editore - lo sa bene Parazzoli, stimatissimo addetto ai lavori per decenni - ieri e oggi ancor di più punta a vendere, grande o piccolo che sia, nulla di strano, e i «risultati» chiesti dalle proprietà ormai gravano su ogni titolo.
La letteratura rispecchia il Paese, e il Paese è quello che è. Manca un’identità nazionale, come può esservene una letteraria internazionale? Manca soprattutto una critica vera, asservita non al mercato ma al proprio nulla ombelicale, postmoderno, postmortem, alle proprie carriere, non in grado di distinguere più nulla. Qualcuno a inizio secolo avrebbe confuso il Piccolo amore beduino di Mario Dei Gaslini o La sperduta di Allah di Guido Milanesi con Pirandello o d’Annunzio? Se negli Stati Uniti considerano Pynchon, McCharty, Wallace, Ellis o Roth dei grandi scrittori e di noi ignorano l’esistenza di Gadda e conoscono più Melissa P o Saviano dei romanzi di Arbasino o Moresco o Busi la colpa è di chi esporta solo ciò che reputa vendibile, non esistendo più la categoria dell’arte. Come se il vendibile, in letteratura, fosse tra l’altro prevendibile e prevedibile.
Il grosso editore italiano non ha più nessun interesse a investire su un capolavoro, perché nessuno glielo riconoscerà, non avrà medaglie al valore. Le librerie non monitorano più i long-seller e i «passaparola», o si vende nel primo mese o non vendi più. Un direttore editoriale ardito finirà cornuto e mazziato. In Italia, per esempio, dalla Francia, arriva un romanzo importante come Le benevole di Jonathan Littell, di cui in Francia si continua ancora a discutere, e i critici lo prendono meno seriamente dell’ultimo di Veltroni o Franceschini e lo stroncano con formulette come «porno pulp», ognuno timbra il cartellino della recensione frettolosa e finita lì. Fosse stato italiano ancora peggio, qui i capolavori si odiano. Successe la stessa cosa con American Psycho di Bret Easton Ellis, il Manifesto consigliava addirittura di mandare dallo psichiatra il lettore a cui fosse piaciuta un’opera simile. Moresco pubblica per Einaudi un j’accuse lungo ottocento pagine contro i critici giornalistici italiani, con nomi e cognomi, e nessuno lo prende in considerazione, nemmeno i chiamati in causa. Si intitola Lettere a nessuno, infatti. Sempre per restare nell’ultimo ventennio quando uscì Scuola di nudo di Walter Siti, il suo capolavoro, nessuno se ne occupò, e la stessa Einaudi cercò di affossarlo, troppo scandaloso. Si sono occupati degli ultimi libri di Siti, più annacquati, più tarati per piacere, finalmente trionfo di Siti anche in televisione ma fine della letteratura, desitizzato anche Siti. Quando l’anno scorso è uscito per Bompiani il mio Contronatura, insieme a La macinatrice frutto di anni di lavoro, Edmondo Berselli su L’espresso scrisse un lungo articolo per dire «finalmente l’opera d’arte assoluta», lasciando ai critici, scrisse, il compito di sviscerarla, ma di critici non se n’è visto neppure mezzo, neppure per stroncarlo (è pur vero che li ho mandati affanculo tutti io personalmente da anni), e di cotanto lancio ne fu infastidito perfino l’editore, mentre al contempo ricevevo messaggi via Bompiani da Scurati (lo stesso che chiama i giurati del Premio Strega uno a uno chiedendo di votare per sé) e altre consorterie perché non mi azzardassi a scrivere male di loro, non si fa.
L’Italia culturale, paese di club: il Club Alias, il Club Stile Libero, il Club Strega, il Club Milanesiana, il Club Primo Amore. Per critici e scrittori un romanzo «è solo un romanzo», sul Corriere Magazine si legge che Musil e Kafka non contano più niente, e nessuno fiata, e però tutti pronti a mangiarsi il cadavere di Pasolini alla prima occasione, magari citando «l’omologazione culturale». I critici, anziché leggere e studiare i romanzi e difendere i valori artistici, scrivono libri sui critici, su se stessi, per dire che sono i più bravi. I più bravi a fare cosa? A incensarsi a vicenda: leggete un librino di Onofri e trovate citati Berardinelli e La Porta e viceversa. Tanto chi gli dice niente.

Tuttavia, fossimo vissuti negli anni Venti, non erano gli anni di Pitigrilli, di Guido da Verona, o Luciano Zuccoli, o Salvatore Gotta o Virgilio Brocchi, sui quali la Mondadori dell’epoca puntava non poco, e più che su Savinio o Malaparte? Quindi in fondo, anche questa storia del mercato, che razza di storia sarà? Come mai la Mondadori manda in edicola i Meridiani di Svevo, Pirandello, Kafka, Dickinson, Pasolini, e Repubblica e il Corriere i grandi classici, e vendono milioni di copie? Come mai un romanzo difficilissimo come Horcynus Orca, finanziato per decenni da Arnoldo Mondadori, all’uscita vendette 70mila copie, e solo trent’anni fa? Ci siamo rincoglioniti tutti o Arnoldo investì con convinzione sul capolavoro? E quindi, più che a causa del mercato, il disastro non sarà per assenza di concorrenza intellettuale, per darwinismo culturale al contrario, per eccesso di ruffianeria e ignoranza, perché è più facile essere mediocri e felici che eccellenti e dignitosamente l’uno contro l’altro?

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