Politica

Pentiti, le «manovre» della Procura di Catanzaro

L’indagine sull’ufficio gip-gup: il rischio delle scarcerazioni facili dei boss per decorrenza termini

nostro inviato a Catanzaro
Un delicatissimo capitolo del «verminaio catanzarese» che sta mettendo in serio imbarazzo il paludato Csm, riguarda gli inquietanti retroscena che stanno dietro all’allegra gestione dell’ufficio Gip-Gup di Catanzaro. Per parlare di scarcerazioni facili e gestione disinvolte dei fascicoli, occorre partire da lontano. Anche e non solo dalla profonda inimicizia (ormai superata) fra il procuratore di Catanzaro Mariano Lombardi e il suo attuale «aggiunto» Mario Spagnuolo, che a metà degli anni ’90 faceva il pm a Cosenza. In quel tempo sulla Dda di Catanzaro si andava concentrando quella che lo stesso Lombardi non esitava a definire «una strategia di delegittimazione» di cui Spagnuolo, volontariamente o involontariamente, secondo il j’accuse di Lombardi, avrebbe fatto parte. Agli ispettori del ministero di Giustizia che oggi chiedono conto al procuratore capo di come abbia potuto affidare proprio al suo ex «nemico» il coordinamento della Dda, questi risponde che è acqua passata, e che l’originario oggetto del contedere era legato al braccio di ferro sulla gestione dei pentiti che sul finire del decennio scorso aveva visto contrapporsi Spagnuolo a un altro magistrato antimafia, Stefano Tocci. Il riferimento va all’indagine di quest’ultimo denominata «Garden», a carico del boss Francesco Pino, e agli interrogatori che Spagnuolo svolgeva nei confronti di alcuni soggetti a cui Tocci non aveva riconosciuto lo status di pentiti perché insospettito dalle strane manovre orchestrate da un legale cosentino, manovre su cui gli ispettori ministeriali si sarebbero concentrati parecchio.
Stando alla relazione degli 007 di via Arenula, se Tocci preferì tenere alla larga i «sospetti» collaboratori di giustizia, Spagnuolo li prese invece a verbale estendendo gli interrogatori ad argomenti che con le sue indagini non c’entravano. Risultato: l’attività di Spagnuolo rischiò di interferire col processo «Garden» istruito da Tocci. Lombardi puntò prima il dito contro il suo attuale aggiunto accusandolo d’aver invaso il campo altrui, e a ruota adombrò una sottile strategia di inquinamento e delegittimazione della Dda. Quando poi il boss Pino decise di «pentirsi» ai carabinieri, l’ufficiale invece di portarlo alla Dda bussò alla porta della procura di Cosenza. A quel punto - riferisce Tocci agli ispettori - Spagnuolo e il suo superiore, il procuratore Serafini, ancor prima che il nome del nuovo collaboratore fosse comunicato, chiesero che fosse proprio Spagnuolo a gestirlo con apllicazione alla Distrettuale. Lombardi, procuratore capo nonché coordinatore della Dda di Catanzaro, si oppose e respinse la richiesta parlando sia di strategia occulta per far naufragare il maxi-processo «Garden» e sia di oscuri burattinai che manovravano i pentiti. Fece nomi e cognomi, chiamò in causa un gruppo di avvocati cosentini e, come «strumenti» consapevoli o inconsapevoli della «strategia», il procuratore Serafini e Spagnuolo. A Tocci, nel processo «Garden», nel frattempo subentrò quell’Eugenio Facciola iniziale «bersaglio» dell’ispezione ministeriale. Nel giro di poco Facciolla entrò in rotta di collisione con Spagnuolo nel momento in cui quest’ultimo ricevette dal Viminale notizie riservate su tre pentiti, notizie ignote alla Dda, giungendo a depositarle agli atti di un processo dove s’erano verificati fatti singolari, come la convocazione contestuale, stesso giorno stessa ora e stesso aereo, di tutti i pentiti interessati.
Gli anni passano. Spagnuolo fa le valige e si trasferisce a Cosenza dove ad accoglierlo felice trova il suo acerrimo nemico Lombardi, il quale assegna al nuovo arrivato poteri e deleghe giudicati, dagli 007 di via Arenula, spropositati. Cercano di capirne di più chiedendo lumi agli avvocati cosentini di cui sopra che gettano ombre sul pm Facciolla per aver coltivato rapporti poco lineari con l’ufficio del Gip al punto da riuscire a far finire i propri procedimenti sempre nelle mani degli stessi giudici, infrangendo le regole dell’assegnazione dei fascicoli. Il testimone invocato a supporto di tale accusa è il presidente di quell’ufficio, Antonio Baudi. L’indagine ispettiva, però, dà risultati sconcertanti: non solo i magistrati dell’ufficio Gip-Gup chiamati in causa smentiscono le versioni dei legali ritorcendo contro di loro le accuse mosse a Facciolla, ma uno dopo l’altro decidono di muovere contestazioni al loro superiore diretto, il dottor Baudi: ecco i riferimenti a gestioni «disinvolte» delle procedure di assegnazione dei fascicoli, a ripetute violazioni delle regole «tabellari», alle pratiche assegnate in maniera anomala col reiterato rischio di scarcerazione dei boss per decorrenza dei termini delle udienze preliminari. Gli ispettori scoprono che il capo della sezione gip che più di una volta si era autoassegnato procedimenti con richiesta di custodia cautelare pendente, provvedesse all’incombenza e poi restituisse il fascicolo al giudice competente in origine. La giustificazione? Il voler sgravare i giudici della sezione da un eccessivo carico di lavoro. E così quando in ufficio il malcontento smette di covare e si diffonde anche per le vicissitudini collegate a sei richieste d’arresto sull’inchiesta «mafia e politica», Baudi dice di esser preoccupato perché, per l’enorme mole di lavoro, nessuno vuol più lavorare nel suo ufficio. Nel caos generale un intervento pacificatore del procuratore Lombardi ottiene il risultato opposto: il resto delle toghe insorgono, protestano indignate, così Baudi si risente e scrive loro una lettera parlando di «ingratitudine». È l’inizio della fine. Tutti contro tutti, nessuno escluso.


3.Fine

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