Perché la politica di Bankitalia deve essere difesa

Bruno Costi

Una volta si diceva che il vero guaio d'Italia era di avere capitalisti senza capitali. Oggi che i capitali ci sono e che lo strumento delle Opa permette a un qualsiasi piccolo risparmiatore di guadagnare esattamente quanto un signor Fiat, scopriamo la rabbiosa reazione di un'Italia di retroguardia, quella dei capitalisti senza capitali, che non ci sta a far posto a nuovi protagonisti e punta dritto al passato: quando si compravano banche e aziende solo nel chiuso dei salotti buoni e i risparmiatori erano il «parco buoi» non avrebbe mai visto mai una lira dal gioco dei mercati finanziari.
La guerra dell'Opa che da settimane sta squassando quel poco di reputazione nazionale e di legislazione finanziaria introdotte dalla legge Draghi e che sta maciullando l'immagine della Banca d'Italia, è a dir poco avvilente perché sprofonda il Paese nella melma di spioni che intercettano, di magistrati che si prestano, di giornali che perseguitano, nella ghigliottina giustizialista che vorrebbe condannare senza capi d'imputazione, senza rispetto del privato delle persone.
Proviamo a mettere ordine nei fatti e nei personaggi e scopriremo che attorno alla vicenda nata dall'Opa Antonveneta e Bnl ma rapidamente diventata il «caso Fazio» si giocano molte partite, ma nessuna che riguardi davvero gli interessi del sistema creditizio e finanziario italiano.
L'interesse nazionale sarebbe dotare il Paese di grandi banche, forti ed efficienti, per far giocare l'Italia ed i suoi imprenditori ad armi pari nella concorrenza europea. E non si venga a dire che in nome della libertà dei mercati dovremmo spalancare le porte al primo banchiere straniero che ci onora della sua attenzione. Provincialismo. Basta dare un'occhiata a riviste indipendenti come l'American Economic Review o il Journal of finance, per scoprire che le fusioni tra banche di diversa nazionalità ci mettono almeno tre anni per dare vantaggi ai depositanti mentre rincarano subito il costo dei prestiti. Gli interessi dei risparmiatori sono invece quelli di avere più servizi, efficienti e a basso costo. Su queste, che sono le partite vere, silenzio. E se un errore c'è stato finora è quello di non aver detto ad alta voce che la Banca d'Italia sta esattamente attuando una scelta politica strategica del Paese, condivisa con il governo, per far diventare le nostre banche in grado di risollevare il capitalismo italiano in declino di idee, coraggio e investimenti manifatturieri. Del resto, nessuno si è sognato di accusare Parigi di «familismo» quando l'establishement francese ha impedito al San Paolo di acquistare banca Dexià.
Alla vigilia delle elezioni si preferisce invece giocare altre partite: la guerra di potere all'interno della sinistra tra la finanza rossa dell'Unipol dalemiana e quella rosa della Cgil-Mps rutellian-prodiana, reduce dai seminari ai Castelli romani con molti dei capitani coraggiosi che oggi attaccano violentemente Fazio e Bankitalia; rivincite personali all'interno dello schieramento opposto; la «presa» della politica sugli «addentellati» che presidiano il territorio (imprenditori, banche, Rai ) o l'ipoteca degli «addentellati» sui politici che si presentano alle elezioni. Non ci scandalizziamo.
Ma che si inventino reati o si creino discrediti per poterne denunciare l'esistenza e reclamare l'autodissoluzione dell'indipendenza della Banca d'Italia per poterla lottizzare un minuto dopo, è veramente troppo. Si ha la certezza che siano stati commessi reati? Che le leggi siano state violate? C'è una sola via maestra: il coraggio della revoca. Se questa certezza non c'è.

Si taccia e si lasci costruire il futuro migliore al Paese.

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