Massimo Malpica
nostro inviato ad Ascoli
«Non so perché l'ho fatto, ma non pensavo di far male. Le porte dello stadio erano aperte, sono entrato, volevo farmi notare e festeggiare la vittoria dell'Ascoli. E così ho sparato. Ma pensavo fosse un bengala, se avessi saputo che era un razzo non lo avrei lanciato». Eccola la versione di E.M., il giorno dopo. Sono ancora vivi nella memoria quel botto e quella scia di fumo che accompagna il razzo da segnalazione nella sua terribile corsa da curva a curva, fino a colpire in testa una tifosa della Sampdoria che potrebbe essere sua madre. Ma adesso, giura E.M. ai suoi genitori, all'avvocato e al parroco della chiesa di San Pietro Martire, don Emidio, che porta il nome del patrono cittadino, «non lo rifarei, ho capito che ho sbagliato».
Le sue parole arrivano filtrate, riportate dal padre e dal prete, dall'avvocato e dalla mamma. Lui è blindato in casa, ma questa volta non è la «solita» punizione per una ragazzata. Questa volta il guaio è serio. E qualcuno, in città, si affretta a dire che se lo aspettava. «Posso essere sincero? Mi dispiace per quella povera signora, speriamo che non sia nulla di grave. Ma per lui sono proprio contento, chissà se una volta per tutte lo capisce che finisce male se non la smette con le sue bravate». A parlare è Carlo, un 35enne che racconta di conoscerlo bene e da tempo quel ragazzo così vivace. Scuote la testa, si sfila gli occhiali e li muove in direzione delle locandine appese all'edicola lì accanto, che strillano la notizia del dramma sfiorato allo stadio Del Duca di Ascoli, domenica pomeriggio. «Il razzo è solo l'indegno finale, ne ha fatte molte, troppe qui in città», insiste, prima di allontanarsi senza voler entrare nei dettagli.
La fama di E.M., per quanto Ascoli Piceno sia una piccola città, è molto più vasta dei suoi sedici anni. Domenica la notizia che si era presentato in questura, accompagnato dall'avvocato e dai genitori per confessare di averlo sparato lui quel razzo, ha fatto il giro della città in poche ore. Merito di un genitore molto noto in città, certo. Ma anche merito suo: il ritratto che ne fanno i suoi concittadini è piuttosto pittoresco, l'aneddotica su di lui quasi mai lusinghiera. Anche se alla fine l'immagine che ne viene fuori è quella di un Bart Simpson di periferia più che di un potenziale assassino. Un ragazzo inquieto, forse troppo solo, animato dalla costante voglia di mettersi in mostra. A qualsiasi costo.
C'è la signora dell'edicola che sorride ricordandolo da bambino, «un ragazzino d'oro, gentile, cortese e sorridente» e poi cambia espressione quando racconta «di una più recente lite con mio figlio: prima ha bagnato i giornali con dell'acqua, e poi l'ha minacciato con una pistola ad aria compressa». C'è la giovane proprietaria di un bar che storce la bocca quando lo sente nominare. «Per quello che è successo mi viene da piangere, davvero. Però lui ha bisogno di aiuto. Una volta mi ha rubato due cellulari, so che era stato lui ma non ho voluto denunciarlo. Gli ho chiesto di restituirmeli e di fronte al suo rifiuto l'ho detto ai suoi genitori, che però hanno voluto credere a lui. Spero che almeno questa storia serva a capire che quel ragazzo ha un problema».
E poi ci sono i ragazzi della sua età, che chiacchierano agli angoli di piazza del Popolo e di largo Simonetti. Fanno ipotesi sulla squalifica del campo dell'Ascoli, commentano la vittoria sulla Sampdoria ma non tutti parlano volentieri del «lanciarazzi ascolano». Lo fa Fabio, seduto su un muretto di marmo, che conferma: «Sì, vuole sempre mettersi in mostra, ma non è un violento, non è cattivo.
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