Perfette o in rovina, opere d’arte da vivere

Due libri usciti in questi scorsi giorni sembrano evocare due dimensioni contrastanti e tuttavia complementari sulla concezione culturale e storica della città e dell’edificazione in generale. Il primo è esile ma ad alto peso specifico, forse anche un poco irritante per la sua condensazione ideologica piuttosto perentoria: La città come opera d’arte, di Marco Romano (Einaudi, pagg. 114, euro 9). Premesso che un manufatto, perché possa essere considerato un’opera d’arte, riuscita o meno, deve essere realizzato con tale intento, Romano osserva come sia possibile individuare elementi costanti nell’evoluzione della città europea che consentono di definirla come opera d’arte, poiché, per quanto la città sia organismo vivo e mutante, composto di categorie differenti di manufatti, questi sono stati immaginati, singolarmente o complessivamente con l’intento d’arte.
Si pensi alla decorazione e alla facciata delle case. Dalla costituzione del Comune, la città non è più il piccolo centro costituito dal clan o dal gruppo di clan e di gentes: diventa una società mobile, e la sua gens, generalizzata, s’identifica con la città e vi appartiene. Una città più o meno aperta agli altri e al dinamismo commerciale e più o meno democratica, nel senso che decoro, bellezza, impianto della città medesima rispondono alle esigenze e alle aspettative di tutti o dei più. Ciò naturalmente a parte le differenze di status ma anche di gusto estetico, e la misura del conformismo: per fare degli esempi a grandi salti, le facciate gotiche il Vasari le considerava degne dei barbari, e nell’800 a Bruxelles la proliferazione delle case liberty faceva inorridire i benpensanti, e non molto dopo, a Milano, veniva chiamato Ca’ Brutta un complesso di nitide facciate déco.
Se il libro di Romano ci trattiene di continuo sul concetto dei «temi collettivi», delle committenze e delle competenze attraverso la storia, il libro straordinario di Christopher Woodward, Tra le rovine (Guanda, pagg. 256, euro 16, traduzione di Libero Sosio) ci appare come un viaggio nel tempo tra le rovine vere o fantastiche, attraverso storia, arte e letteratura. Il libro si apre con due scenari distanti e apocalittici: alla fine del Pianeta delle scimmie, il film degli anni ’60, Charlton Heston si allontana mesto a cavallo sulla riva del mare, e un’ombra lo sovrasta; egli si volta, guarda su: è la Statua della Libertà, inclinata e cadente, a mezzo sepolta dalla sabbia, dopo l’olocausto nucleare. Nel secondo scenario, abbiamo Gustave Doré: in un’incisione del suo Pellegrinaggio a Londra, intitolata Il Neozelandese, l’uomo da Sud di London Bridge, ritrae di là del fiume una Londra spettrale e cadente, con la cattedrale di St. Paul in rovina. L’olocausto nucleare non c’è stato, Londra splende e, proprio nel 1873, mentre Doré eseguiva quell’incisione, la stazione di Cannon Street, da dove il neozelandese disegnava, era nuova di zecca, con i suoi bei pilastri di ghisa.
Ma queste sono rovine paventate o scaramantiche, le Babilonie crollanti nei quadri ottocenteschi.

I ruderi veri, le rovine classiche, Efeso, Pompei, il Foro romano, la via Appia, il Colosseo, Leptis Magna, le abbazie medioevali inglesi che affascinavano Byron, gli acquedotti che Goethe si fermava a disegnare viaggiando per la campagna romana, se sono i segni della grandezza e della caducità umana, la prova che le grandi civiltà nascono, prosperano e crollano, formano però il nostro patrimonio di memoria, sono la testimonianza parlante del passato, creativa per la nostra immaginazione presente.

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