Prima il niqab, poi il burkini. Due missioni più o meno identiche, a distanza di un anno, e poi il medesimo sbocco mediatico: «Guardate come sono cattivi questi italiani che non rispettano la mia cultura». E giù paginate grondanti indignazione contro questi nemici del relativismo piazzati in posizioni strategiche come la custodia del museo Ca’ Rezzonico di Venezia e della piscina Santini di Verona. Nel primo caso un guardiano rischiò il licenziamento perché fece notare a un’aspirante visitatrice che non si poteva entrare col volto coperto dal niqab, un velo che avrebbe potuto celare il volto di un delinquente. Nel secondo caso, capitato pochi giorni fa, a Najat Retzki Idrissi, 43 anni, marocchina, di professione «mediatrice culturale», è stato fatto notare che l’ingresso in una piscina comunale bardata come un sub avrebbe potuto spaventare i bambini e infastidire tutti gli altri.
«È sempre lei - ha tuonato Gianni Curti, presidente della cooperativa «Verona 83» che gestisce i servizi museali a Venezia - l’ho riconosciuta. Stessa tecnica, stesse conseguenze. Prima si avvicina coperta e poi, quando qualcuno le fa presente che i regolamenti non consentono di abbigliarsi in quel modo, lei chiama i giornalisti».
«Non è vero niente - ribatte la marocchina - non sono io quella che era a Venezia. Se questa persona dice che indossavo il niqab come ha fatto a riconoscermi, dagli occhi? Ho lavorato tutta la vita per l'integrazione, ho fatto la mediatrice culturale in tutti gli ambiti sociali, non sono una provocatrice, rispetto solo la mia religione, l'Islam e mi spiace che tutto questo stia accadendo proprio nei giorni del Ramadan».
Che il polverone scatenatosi dopo i due episodi sia lo stesso, è certo. Che ad alzarlo sia stata la stessa persona è controverso. È la parola di Curti contro quella della signora Retzki, che pur pretendendo il diritto di vestire il burqini in piscina, tiene anche a sottolineare il fatto di essere cittadina italiana (vive a Verona da una quindicina d’anni). «E non chiamatelo burqini - si inalbera - perché mi ricorda il burqa, che è un indumento afgano. Io porto il velo, come è scritto nel Corano».
«A Venezia non prendemmo le generalità della signora - aggiunge Curti - perché non abbiamo certo poteri di polizia. Ma mi dissero che si trattava anche allora di una mediatrice culturale, per giunta di Verona». Un indizio importante, anche se all’epoca le cronache dei giornali riferirono che la signora espresse in inglese le proprie rimostranze, quando Najat Retzki Idrissi parla perfettamente in italiano.
Vuoi vedere che siamo di fronte a un’attrice professionista? In senso tecnico, la risposta è sì. Perché tra i compiti di mediatrice culturale che svolge a Verona, la signora Retzki ha anche quello di attrice teatrale, nell’ambito, udite udite, del progetto culturale Reconcart finanziato dall’Unione europea e portato avanti dalla Fondazione Aida. «Reconcart si propone di promuovere una più profonda comprensione e conoscenza tra donne musulmane e no che vivono in Europa - si legge nel dépliant di presentazione - utilizzando le arti come mezzo per ottenere questa comprensione e condividerla con un pubblico più ampio».
«Hijab o del Confine», si chiama così la rappresentazione teatrale di cui la marocchina è tra le attrici e che ha come filo conduttore la tradizione del velo. Il punto è che l’Unione europea finanzia lodevoli iniziative di integrazione culturale che prevedono però che sia la piscina Santini di Verona ad accettare il burqini della signora Najat e non la signora Najat ad accettare il regolamento della piscina Santini. E la signora che l’anno scorso voleva entrare a Ca’ Rezzonico con l’hijab sembra uscita dal copione di questi grandi progetti relativisti partoriti dagli illuminati politici di Bruxelles.
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