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Artemisia Gentileschi, l'artista delle corti che nel '600 denunciò un abuso

Artemisia Gentileschi, fra le pittrici più famose del 1600, ha impressionato nobili e intellettuali del suo tempo. Vittima di una violenza sessuale, che allora significava la fine per una donna, non si fece fermare

Artemisia Gentileschi, autoritratto
Artemisia Gentileschi, autoritratto

Artemisia Gentileschi è fra le artiste più famose italiane: prima donna a essere ammessa all’Accademia delle arti di Firenze, amica dei geni illustri del primo ‘600, le sue opere contano tuttora fra le più importanti dell’eredità artistica italiana. Una figura inusuale per i suoi tempi, è stata comparata a pittori quali Michelangelo Merisi, meglio noto come il Caravaggio.

Artemisia, figlia d’arte

Artemisia Lomi Gentileschi è nata a Roma l’8 luglio 1593 da Orazio Gentileschi e Prudenzia di Ottaviano Montoni. La madre morì di parto nel 1605, quando Artemisia aveva solamente 12 anni, motivo per il quale, probabilmente, legò molto con il padre, un pittore di origini pisane, specializzato nella tecnica dell’affresco. È grazie a lui se la piccola Artemisia, che già in giovane età aveva dimostrato di possedere una spiccata dote artistica, era riuscita a coltivare il suo talento nello studio del padre.

Un episodio, però, segnerà la vita della giovane donna per sempre: nel 1611, a soli 18 anni, viene violentata da un amico del padre, un tale Agostino Tassi che frequentava abitualmente lo studio della famiglia Gentileschi, tanto da essere maestro di prospettiva di Artemisia. Tassi aveva approfittato di un momento in cui il genitore non era presente per abusare dell’allieva. Nei mesi successivi, per “alleviare” lo scandalo che ne sarebbe scaturito, l’uomo promise di sposare la ragazza. Questa però, nel 1612, scoprì che l’artista era già sposato e quindi il matrimonio riparatore tanto auspicato non si sarebbe mai potuto realizzare. La ragazza, appoggiata dalla famiglia, fece una cosa altamente inusuale per i tempi: sporse denuncia.

La testimonianza sotto tortura

Ai tempi, non esistendo il sistema giuridico odierno, il padre di Artemisia sporse denuncia dell’accaduto direttamente a papa Paolo V, che diede via al processo. Le varie udienze divennero presto un’atrocità per la donna: l’artista dovette passare per numerosi interrogatori e visite ginecologiche, anche tenute in sede del processo per provare l’azione violenta di Tassi.

Ma non bastava: per provare che stesse dicendo la verità, i giudici costrinsero Artemisia a testimoniare sotto tortura. La tecnica scelte fu quella della “sibilla” che prevedeva di avvolgere i pollici in una cordicella e stringerla fino a obbligare il testimone a confessare. Una tecnica del genere rischiava di distruggere le falangi della vittima e per Artemisia, che della pittura voleva fare la sua vita, questo sarebbe stato fatale. Ciononostante, la donna acconsentì di sottoporsi a questa tortura, continuando a confermare la sua versione dei fatti. Anzi, secondo alcuni documenti del tempo, mentre le stavano legando le dita, la donna avrebbe guardato Tassi negli occhi, dicendo: “Questo è l'anello che mi dai, e queste sono le promesse!

Alla fine, i giudici condannarono Tassi a cinque anni di reclusione o, in alternativa, di allontanamento da Roma. Pena che però non scontò mai. Per riparare l’immagine della figlia, Orazio organizzò un matrimonio con un altro artista, Pierantonio Stiattesi, con cui Artemisia si trasferì a Firenze.

Il periodo fiorentino e la rinascita

Fu qui che la donna ebbe la possibilità di realizzarsi: venne introdotta, grazie a diverse conoscenze, alla corte medicea, dove si fece amici, tra l’altro, Galileo Galilei e Michelangelo Buonarroti il giovane, nipote del famoso scultore. È stato anche grazie a lui che Artemisia venne ammessa all’Accademia delle arti del disegno, la prima donna a cui fu concesso.

Di spiccato intelletto e doti artistiche innegabili, si mormora che la sua pittura sia stata influenzata dal Caravaggio perché questo usava frequentare lo studio di suo padre. Le sue opere, effettivamente, riprendono quel chiaroscuro tipico dell’artista, mancato nel 1610, ma i temi riflettono la vita tormentata della donna: Susanna e i vecchioni e Il ratto di Lucrezia, figure vittime dei comportamenti degli uomini, ma anche Giuditta che decapita Oloferne, Giaele e Sisara, figure che invece si ribellano al loro destino.

I viaggi e l'attività sotto la corona inglese

Visto il periodo storico, non potevano ovviamente mancare soggetti religiosi, che la donna cercava però comunque, ove possibile, di dedicare alle figure femminili, come Maria Maddalena. Nel 1622 decise di tornare a Roma insieme alla famiglia. Da qui, otto anni dopo, si trasferì a Napoli, città che ritenne attraente per la vivacità dell’ambiente artistico e culturale. Vi fu una breve parentesi a Londra, presso la corte di Carlo I insieme al padre, che durò dal 1638 al 1642, anno della morte di Orazio.

Sulla morte di Artemisia vi sono diverse ipotesi, inizialmente risultava che fosse morta tra il 1652 e il 1653. Recenti scoperte dimostrano però come accettasse commissioni fino al 1654. Al momento la versione più appurata attribuisce la sua morte all’epidemia di peste che colpì Napoli nel 1656. L’artista venne sepolta presso la Chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, ma, dopo un ricollocamento dell’edificio, il suo sepolcro risulta perso.

La vita di Artemisia Gentileschi non risultò comunque delle più semplici: nonostante avesse goduto della protezione di diversi mecenati, la sua figura risultò spesso

oggetto di critiche e prese in giro, specialmente dalla popolazione romana, che non dimenticò mai le vicende del 1611. Infatti risultano tramandati nel tempo diversi sonetti che prendono di mira l’artista.

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